Se la bandiera degli Stati Uniti d’America è a stelle e strisce, non è un caso. Viene, infatti, comunemente chiamata “Star and stripes” o – in maniera più tradizionale “Old Glory” – in riferimento ad una ricca simbologia che rappresenterebbe la libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti. Un’indipendenza e autonomia ostentata con orgoglio, a partire da quel 3 settembre 1777, col tempo diventata una costante. Il modello americano è sempre stato ritenuto un esempio, quel sogno di emergere ed imporsi fino a brillare (come, appunto, le stelle che simboleggiano i cinquanta stati federati). Volendo, però, scardinare la retorica, l’America – pur essendo un forte esempio per la storia, la politica, l’economia e la cultura di massa nel mondo occidentale (soprattutto a causa della massiccia presenza di film e telefilm americani sui nostri schermi) – ha sempre avuto una doppia faccia. Non tutto è come sembra. Lo insegna la storia: Frank Delano Roosvelt, che fu a capo degli Stati Uniti per ben 12 anni (compresi quelli della Seconda Guerra Mondiale), oltre ad essere stato un presidente di grande rilevanza, viene ricordato come uno dei più grandi attori d’America. Parola di Orson Welles. Nel 1921, all’età di 39 anni, Roosvelt fu colpito da una grave forma di Poliomelite, che compromise in modo notevole il funzionamento dei suoi arti inferiori, ma non la sua determinazione a scalare i vertici della politica americana. Quindi, nascose la sua disabilità perché temeva che l’avrebbe screditato agli occhi del pubblico. Apparire piuttosto che essere, insomma. Se nel 1933 tutti gli americani avessero saputo che Roosevelt passava tutto il giorno su una sedia a rotelle, avrebbero eletto il suo antagonista repubblicano Hoover. E nessuno avrebbe mai potuto dimostrare che gli Stati Uniti si possono governare anche da una sedia a ruote. Questo significa che, forse, diritti e uguaglianza non sono concetti così profondamente introiettati nei figli dello Zio Sam, altrimenti uno degli uomini più influenti a livello politico e sociale non avrebbe avuto bisogno di organizzare una recita perenne (con la complicità di entourage e parenti) per rafforzare la leadership. Quindi, il pregiudizio fa più danni di eventuali promesse non mantenute.
Sono passati molti anni, ma negli Usa le cose non sembrano essere migliorate: in termini di evoluzione e accessibilità l’America dimostra essere avanti anni luce rispetto ad altri paesi, come confermano le parole di Furio Colombo – giornalista, scrittore e politico italiano: “Percorrendo i marciapiedi di New York, e notando che tutti (tutti) hanno il passaggio per le ruote delle carrozzelle, che tutti gli ingressi delle case hanno il piano inclinato che evita i gradini, che tutti gli edifici pubblici sono stati riorganizzati in modo che i luoghi siano sempre accessibili, che tutti i bagni sono stati cambiati e tutti gli autobus sono muniti di piattaforma in grado di accogliere e ricevere alle fermate un “mare” di nuovi cittadini attivi, mi rendo conto che è accaduto qualcosa di grandioso, forse la più grande fra le rivoluzioni dei diritti umani che si siano compiute nella nostra epoca”. Dinnanzi a quest’esempio di integrazione così palese, però, si celano misteri e mezze verità in perfetto stile Roosvelt. Quel che si vede non è la realtà. Infatti, chiunque può passeggiare e vivere le strade americane (già un grande passo se si pensa alla situazione italiana, ad esempio) pur avendo una disabilità, nonostante questo la politica sociale e d’inserimento sembra essere latente. Lo confermano le statistiche che – a dispetto delle apparenze – sottolineano quanto, per gli studenti americani con disabilità, sia difficile inserirsi in un ambiente socioculturale: oltreoceano, infatti, ben 1/4 degli studenti con disabilità viene sospeso o espulso dagli istituti che frequenta. I disabili costituiscono il 12% della popolazione studentesca americana, ma il 25% di loro è arrestato o denunciato alla polizia. Dati che gettano più di un’ombra sul sistema scolastico made in Usa. Ancor di più se si pensa che gli Stati Uniti, nonostante lunghe discussioni, si rifiutano di ratificare la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Inoltre, questo clima ostile è favorito ed incentivato dall’abisso e la differenza di trattamento che c’è tra servizio pubblico e privato. Le scuole pubbliche, molto spesso, non hanno i mezzi e la preparazione necessaria per accogliere studenti con disabilità.
Marina Viola – blogger e madre di un figlio autistico che studia a Boston – spiega la situazione: “Il distretto scolastico è obbligato a offrire una scuola che abbia gli strumenti per far raggiungere il massimo potenziale a tutti gli studenti, neurodiversi o no. In certi casi, quando non è chiaro quale scuola è la più adatta, viene richiesta una valutazione, fatta da specialisti indipendenti, e se si ritiene che la scuola pubblica non ha tali strumenti, è onere del distretto pagare una scuola privata che li abbia. Il fatto, però, è che alcuni distretti, che non vogliono pagare la retta scolastica, usano la ‘scusa’ dell’integrazione e si impuntano sulla scelta pubblica, sapendo bene che non è la scelta giusta …”. Quindi, lo studente con disabilità (e la relativa famiglia) si ritrova a dover scegliere, malgrado tutto, una prospettiva d’istruzione non idonea alle sue esigenze. Le alternative, andando nel privato, ci sarebbero anche ed è stato spiegato che, a seconda dei casi, quando una scuola pubblica non può accogliere (per proprie mancanze o inadempienze) un ragazzo con disabilità, deve provvedere economicamente affinchè lo studente possa frequentare un istituto privato. Il più delle volte, purtroppo, questa legge viene disattesa attraverso meri espedienti burocratici che incastrano i diretti interessati in un costante gioco degli equivoci, a scapito della formazione ed educazione di futuri cittadini americani. Così è anche nel mondo del lavoro: nonostante la legge 39/1989 ADA (American with Disability Act) del 1992 attesta che “non deve esserci discriminazione in ogni posto di lavoro ed è a questo proposito significativo che nei moduli delle domande di assunzione sia vietato qualunque riferimento allo stato fisico della persona. In caso di discriminazione, il disabile si può appellare al tribunale e pretendere di essere reintegrato e risarcito”, sono sempre di più le aziende che non rispettano gli ABA (l’equivalente dei nostri PEBA) e preferiscono pagare penali economiche piuttosto che assumere personale con disabilità.
La paura di Bill Clinton, quando governava l’America, era che degli “storpi” si incatenassero ai cancelli della Casa Bianca. Temeva in modo specifico i combattenti per i diritti dei disabili dell’ADAPT. Questi lo inseguirono nell’Arkansas, lo assillarono a Washington DC. Imparziali, hanno dato la caccia a George W. Bush per tutto il tragitto da Austin ai cancelli della Casa Bianca. Rosemarie Garland Thomson, autrice di “Extraordinary bodies” ed esperta di studi sulla disabilità (e sulle minoranze etniche), scrive che: “La storia delle persone disabili nel mondo americano è in parte la storia di persone messe in mostra. Noi diamo nell’occhio, ma siamo socialmente e politicamente cancellati”. Aggiunge anche: “Le persone disabili sono state in vari modi oggetto di paura, disprezzo, terrore, ispirazione, pietà, divertimento o fascino — ma saltiamo sempre agli occhi. Oggi certi nostri politici usano la nostra visibilità per i loro interessi”. Insomma, da Roosvelt a Clinton, passando per Bush e Obama, fino ad arrivare a Trump. La disabilità è sempre stata oggetto di discussione: mostrata, compatita, ostentata, utilizzata. Infatti, Donald ha evidenziato questa tendenza in uno dei recenti comizi che l’ha visto protagonista; per non farsi mancare nulla, dopo aver ironizzato su tutto, essersela presa con i messicani, aver canzonato la sua avversaria politica Hillary (Clinton n.d.r.), sbeffeggia un giornalista con disabilità per difendersi da una domanda scomoda: “Povero ragazzo. Dovreste vederlo: “Ehm, non so cosa ho detto. Non mi ricordo”, agitando le mani e mimando le difficoltà motorie di Kovaleski provocate dalla sua malattia.
Il sociale è sempre stato un terreno irto di imprevedibilità: argomento di grande attrattiva e presa nei discorsi, oggetto di accuse e noncuranza quando si va a scardinare la realtà in profondità. Nessuno è immune a questo giochino sadico secondo cui il dover tutelare le minoranze, di fatto, è un peso più che un impegno. Persino gli Stati Uniti, che sbandierano benessere e virtù, vivendo d’immagine e propaganda, ghettizzano i più deboli. Si servono delle categorie più fragili in campagna elettorale, stringendo mani, rendendo accessibili le strade, costituendo però un permafrost civico che agisce in sordina. Un substrato di soprusi che divide ancora la popolazione tra pochi eletti e “figli di un Dio minore”, senza alcuna alternativa se non l’oblio. La disabilità e l’integrazione sociale, apparentemente fiore all’occhiello di un popolo sempre più cosmopolita, sono invece piaghe che ristagnano nell’antro più oscuro del carattere yankee.
Articolo di Andrea Desideri