La scomparsa di Carrie Fisher è stata una ciliegina amara sull’ideale torta del 2016 che, purtroppo, è stato caratterizzato da molti decessi illustri. Annus horribilis a livello musicale, le morti di David Bowie, Prince e George Michael sono un esempio lampante, tuttavia anche nel cinema cominciano a mancare pezzi importanti. La donna, figlia d’arte dall’unione di Debbie Reynolds – protagonista di Singin’ in the Rain – ed il cantante Eddie Fisher, debuttò sul grande shermo con Warren Beatty in Shampoo. Non aveva neanche vent’anni e, soltanto due anni più tardi – nel ’77 – , ha recitato il ruolo che le ha portato maggior fortuna e fama: quello della sorella di Luke Skywalker in Star Wars. L’abbiamo vista, però, anche in molti altri film di successo: I Blues Brothers (1980), Harry ti presento Sally (1989), Scappatella con il morto (1990), Austin Powers: il controspione (1997), Scream 3 (2000) e Charlie’s Angels – Più che mai (2003).
Un’attrice riconoscibile e desiderata – lo dimostra la massiccia mobilitazione di fan in occasione della dipartita – ma non abbastanza conosciuta. Infatti, Carrie, come solevano chiamarla al di fuori dei set, era una principessa sfiorita. A volte non basta un appellativo in grado di emozionare milioni di persone, non serve un nome altisonante – Leila – acclamato da chiunque come fosse quello di battesimo, per sentirsi appagati nei confronti della vita. Sessant’anni, i suoi, costellati da successo e riconoscenza ma anche drammi profondi e ferite aperte: problemi di alcolismo, una dipendenza dai farmaci dura da debellare, e lo spettro della cocaina sempre presente. L’attrice, infatti, non ha mai nascosto il suo abuso di sostanze stupefacenti, anzi ne ha fatto l’oggetto di vari romanzi. Il suo primo libro, “Cartoline dall’inferno” – una storia che racconta parzialmente proprio del suo alcolismo –, è divenuto un film con Meryl Streep (fresca di Golden Globe alla carriera). Wishful Drinking, un suo saggio redatto nel 2008 che descrive nuovamente il suo rapporto con il bere, aggiungendo un lato introspettivo che racconta gli anni travagliati della gioventù, è stato riadattato fino a diventare un documentario Hbo. Arriviamo, quindi, al recente passato: prima che morisse, l’Università di Harvard l’aveva insignita dell’Outstanding Lifetime Achievement Award in Cultural Humanism per il coraggio con cui aveva raccontato le dipendenze e anche la malattia mentale. Era infatti affetta da disturbo bipolare.
Si parla di coraggio nell’affrontare certe patologie soltanto quando abbiamo a che fare con le star, perché ce le immaginiamo sempre inarrivabili. Distanti. Qualcosa che sono altro da noi, infallibili. Invece, quando si mettono a nudo, scoprono le loro debolezze in pubblico, ci rendiamo conto di quanto siano fragili. Forse più vicini a noi gente comune. Carrie Fisher, infatti, prima di essere un’attrice era una persona bipolare. Bipolarismo è un termine che, nel gergo comune, ormai viene associato quasi esclusivamente alla politica senza tener conto che può essere anche un disturbo psichico. Anzi, nasce come tale. In Italia ne soffrono circa 3 milioni e mezzo di persone, molte senza neanche esserne consapevoli: stiamo parlando del 5,5% della popolazione generale, stando alle statistiche di Medici Italia. Dietro una diagnosi, c’è sempre un mondo che deve essere conosciuto e compreso nel profondo, proprio per trovare soluzioni il più efficaci possibile sia per la persona che soffre direttamente sia per la rete familiare.
Secondo i manuali psicologici e psichiatrici, tale disturbo è stato separato dai disturbi depressivi e posto come ponte tra lo spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici. Le possibili cause sono di natura biologica, ma anche sociale, e l’insorgenza dei sintomi può avvenire in concomitanza di episodi rilevanti a livello emotivo nella vita dell’individuo. Nel caso di Carrie Fisher avrebbe influito molto l’abbandono paterno: Eddie Fisher se n’era andato per seguire la sua nuova fiamma, Elizabeth Taylor, quando lei aveva appena due anni. Se c’è di mezzo l’emotività si può sfociare in comportamenti inconsueti, ecco perché – avendo a che fare col bipolarismo – è possibile incorrere in rabbia, intolleranza, può insorgere una sensazione di ingiustizia subita e quindi varie forme di irritabilità. L’alterazione dell’umore è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del funzionamento sociale e lavorativo o da richiedere l’ospedalizzazione per manifestazioni lesive contro sé o altre persone. L’episodio non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza (sostanza d’abuso o farmacologica) o ad altra condizione medica. Infatti, l’abuso di farmaci da parte della Fisher non influiva su un bipolarismo già accentuato, rendeva però precaria una condizione salutare che inizialmente non era poi così critica.
L’ennesima morte inattesa ha portato alla luce una patologia caduta, apparentemente, nell’oblio. L’informazione su certe tematiche richiede costante aggiornamento e non può permettersi di sfociare nella dimenticanza. Il successo di una star ha permesso di sollevare questioni che sembravano assopite, bisogna continuare ad avere la tenacia per trattare determinati argomenti e – quando è possibile – fronteggiarli.
Articolo di Andrea Desideri