Ormai è consolidato: musica e disabilità vanno di pari passo, sono un binomio perfetto ed inossidabile. Se oggi il mondo dell’informazione si è avvicinato sempre più alle tematiche sociali, il merito va anche alle note e parole di artisti che, in un modo o nell’altro, sono divenute portavoce di un pezzo di società emarginata da tempo. Ovviamente, parlare di determinate tematiche non è sempre facile, il rischio è non rappresentare la realtà dei fatti. Lo sa bene Nico Royale, all’anagrafe Nicola Boreali, il quale – su idea di un’Associazione -, ha creato Non è facile parlare di me, brano incentrato sull’autismo, ma che può essere tranquillamente esteso al concetto stesso della disabilità. Il bolognese di matrice reggae non è stato da solo in questo percorso, ma si è fatto valere dell’aiuto di ragazzi che vivono da sempre con questa condizione.
Com’è nata l’idea di creare questa canzone?
“Grazie a degli amici che hanno un Associazione, Autismo oltre il blu, che si occupa appunto di autismo, crea tante attività con bambini e ragazzi con questa condizione, come lavorare la ceramica. Mi hanno proposto l’idea di scrivere questo brano anche con la finalità di raccogliere fondi per i loro progetti, e doveva essere fatto uscire in concomitanza con la Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo. Essendo educatore, ho già lavorato con ragazzi autistici e non, sono molto sensibile alla disabilità, e quindi ho subito accettato. La musica può essere utilizzata per veicolare messaggi e valori più o meno importanti, ma che possano venire da un qualcuno che ti suggerisca uno sogno da realizzare”.
Quando utilizzi il termine musica, parli in generale o più in particolare del reggae?
“Secondo me, la musica è musica, poi i generi esistono ed è bello conoscerli e studiarli. Il reggae si è fatto sempre portatore di messaggi importanti, di pace e ribellione. Forse, per chi fa questo genere musicale, viene più facile essere sensibili a temi sociali, ad interessarsi di quello che succede nel mondo, rispetto ad uno che si occupa della dance – ma non è detto -. Tutta la musica dovrebbe e potrebbe parlare di quello che succede e che colpisce, che amiamo e che odiamo: insomma, le cose vere, che sentiamo sulla nostra pelle o di chi ci sta intorno. Ad esempio, nella mia canzone mi sono immaginato di essere 4/5 ragazzi autistici e di parlare con la loro voce. Ovviamente non sarà mai quello che pensano, però ho cercato di essere loro”.
Attraverso questa canzone racconti delle storie reali, in quanto sei stato vicino a persone con autismo durante la composizione.
“Mi sarebbe dispiaciuto scrivere cose troppo fantasiose o esagerate. I nomi sono inventati ma le persone esistono, ho passato vari momenti con chi è affetto da autismo, li ho conosciuti, e sono felice che si capisca che sono ragazzi che ho realmente incontrato, perché vuol dire – almeno per noi che non siamo in questa condizione – che ho descritto quanto di più vicino alla realtà. Poi, più in là è difficile andare. Ci tengo a sottolineare che fra i vari nomi che ho citato nel testo, uno un particolare mi ha aiutato a scrivere la canzone, un ragazzo di 16/17 anni”.
Ho letto che all’inizio c’è stata un po’ di reticenza proprio da parte di questo ragazzo.
“Si, ma anche lì non si sa bene. Tramite la sua educatrice, il primo giorno gli ho chiesto se fosse interessato ad aiutarmi. Lui ha risposto: ‘Mah, mi sembra una cosa stupida!’ [ride]. Ma la volta dopo, una professoressa mi ha presentato direttamente due fogli scritti da lui, in cui mi spiegava cos’era l’autismo, che avrebbe fatto di tutto per non essere autistico, che non capiva tutta questa attenzione nei suoi confronti, perché tutti volevano cambiarlo e farlo diventare qualcuno che non era. La stessa professoressa rispose che l’aiuto serviva proprio in risposta alla sua idea di un autismo come ad un casino, e lui ringraziò tutti per l’amore che gli veniva dato”.
Nella brano, tu stesso ti immedesimi in questa condizione, inviando un importante messaggio: comprendere la persona diversa da noi.
“Si, anche se a mio avviso i messaggi sono due. Uno è quello che hai detto: da una parte c’è da capire la persona autistica, senza costringerla a non essere quella che non è; dall’altra, bisogna prestargli attenzione, aiutarli, immedesimarsi in loro. Chiunque sia in difficoltà va più aiutato di chi non ne ha bisogno”.
Secondo te, il problema di una mancata inclusione sociale deriva dalla cultura popolare?
“Sicuramente. Guardiamo nei paesi poveri: se tu sei il matto della comunità, storicamente sei tale, il tuo soprannome diventa ‘il matto’. Però non sei da solo, ti ritrovi al bar con amici, ti riportano a casa, c’è una forma di solidarietà. In altre società invece – penso agli Stati Uniti -, ognuno sta per i fatti suoi: se tu sei sfortunato, fatti tuoi, io penso ai miei successi; se poi hai problemi, vieni definito ‘poverino’ e basta. Nelle varie culture c’è un diverso modo di affrontare e aiutare le persone con difficoltà. Quindi è per forza un fattore culturale, ma uno stato serio dovrebbe impegnarsi a consegnare dei valori ai giovani su queste cose, sul fatto che siamo diversi ma uguali allo stesso tempo, sia che uno sia omosessuale, nero, disabile, povero. La sopravvivenza, la guerra e l’odio sono insiti nella natura umana, ma alla fine anche l’amore, il rispetto e la solidarietà. Quale delle due deve prevalere, uno stato serio lo dovrebbe sapere”.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante