Craig Silverman, uno degli analisti del Web più conosciuti e sagaci e direttore del sito BuzzfeedCanada, qualche giorno fa – ospite in Italia, in occasione del Festival del Giornalismo di Perugia – si è imbattuto nel programma televisivo di Bonolis e Laurenti. Silverman, dalla sua stanza d’albergo, ha twittato: “C’è uno show sulla tv italiana chiamato Ciao Darwin ed è probabilmente la fine dell’umanità”. Da quel momento, milioni di twittaroli – per dirla più semplicemente – in Italia sono impazziti (140 caratteri alla volta) per difendere il programma di Mediaset, spiegando che si tratta soltanto di un gioco goliardico che i più ottimisti definirebbero “show”. Probabilmente, come spiega “Il Fatto Quotidiano”, il canadese aveva già colto la natura del programma, i suoi cinguettii mostravano solamente insofferenza nel vedere quanto la televisione italiana avesse raschiato il fondo del barile. Chissà cosa avrebbe pensato quest’uomo se avesse saputo che Raffaele Sollecito – 32enne di Giovinazzo accusato nel 2007 insieme ad Amanda Knox e Rudi Guede dell’omicidio di Meredith Kercher e assolto definitivamente lo scorso anno – si riscopre opinionista televisivo in merito ai casi di cronaca nera. Chissà cosa penserebbe il fondatore di “Regret the Error”, blog che si occupa di verifica delle notizie, se sapesse che Bruno Vespa – conduttore del talk show serale per eccellenza della tivù pubblica italiana – ha invitato nella sua trasmissione il figlio di Totò Riina, Salvatore, per permettere di raccontare una storia familiare che riqualificasse la famiglia, in cui la M sta per mafia, piuttosto che per intervistare un condannato che a sua volta è figlio di condannati.
Se non è fine dell’umanità questa – Silverman docet – poco ci manca, perché alla fine dei conti la televisione resta un mezzo di comunicazione. Il più importante, forse, insieme al Web, seguito dalle radio. Per questo, l’Italia si è scandalizzata quando “Porta a Porta” ha fatto suonare un campanello d’allarme di troppo: il rischio, forte e non banale, è quello di mettere sullo stesso piano mafia e Stato. Efferatezza e ribalta mediatica. Se, nel caso di Sollecito, c’è una verità giudiziaria a mettere a tacere (o quasi) ogni dubbio sulla credibilità del personaggio – che, nonostante l’assoluzione, vive comunque attorno allo scetticismo della collettività – nella vicenda Vespa la verità giudiziaria si ritorce contro la credibilità del programma, di Viale Mazzini, e quindi – per traslato – dell’Italia (visto che si tratta della tivù di Stato). L’aula di tribunale a suo tempo si è espressa con un giudizio di colpevolezza assoluta: la famiglia Riina, perciò, ha sulla coscienza le morti di Falcone, Borsellino e tanti altri che avevano solo la “colpa” di volere un mondo più onesto. Questa consapevolezza pesa come un macigno nel momento in cui un cronista, Vespa in tal caso, decide di proporre un’ospitata scomoda. Ecco che parte, quindi, la rivolta di piazza: molti, moltissimi italiani (tra cui Sabina Guzzanti), scendono in strada – sotto la sede Rai – per chiedere la chiusura di “Porta a Porta”. Togliere il mazzo di chiavi a Vespa, definitivamente. A questo punto, solitamente, parte la diatriba: “Enzo Biagi intervistò Sindona e nessuno battè ciglio” tuona il giornalista abruzzese. Immediatamente messo a tacere dalla presidentessa Rai Monica Maggioni: “Ci sono molti modi per fare la stessa cosa. Il come delle cose, resta fondamentale”. Ecco, appunto, come piuttosto che cosa. Parole chiare, decise, che mettono in risalto quanto si voglia evitare la censura di ogni fonte d’informazione (la Rai ancora non digerisce troppo il famoso “Editto Bulgaro” subìto nei primi anni Duemila), a patto che, però, si compia il proprio dovere di cronista mantenendo una certa deontologia professionale.
Per intenderci: l’Italia è un paese che mal sopporta quando si affrontano certi argomenti in maniera diretta, parlare di cronaca va bene, ricamarci sopra anche, ma di fronte al fatto compiuto scatta la lesa maestà. Un giornalista, oggi, deve parlare di nera per avere consenso. Infatti, sono molti i programmi che ripescano nel torbido delle morbosità efferate riguardanti delitti e non solo, ma sempre su un piano molto soft. Quasi come una chiacchierata informale. Proprio le modalità con cui Vespa avrebbe accolto Riina Junior: “Nel servizio pubblico – dice la presidentessa della Rai – e per i giornalisti del servizio pubblico, la vittima e l’aguzzino non possono avere stessa dignità di racconto a meno di non considerare sullo stesso piano la mafia e chi lotta contro la mafia”. Chi fa il giornalista, nell’entroterra italico, e tocca certi temi, deve sapere di non potersi permettere certi lussi. E’ necessaria un’inflessibilità e un fare incalzante che Vespa non avrebbe dimostrato di avere: “Il punto è che si capisce che ieri sera Riina ha condotto lui la partita. E ha firmato alla fine la liberatoria perché era soddisfatto di aver mandato il messaggio che voleva mandare. Ieri sera il gioco lo ha condotto Riina non la Rai. Lui firma dopo perché gli interessava di dire ciò che voleva dire. La conclusione è che il presidente del Senato firma prima, Riina firma dopo”, sottolinea Rosi Bindi successivamente alla diretta. Perché, però, attaccare Vespa esclusivamente per l’ospite e la sua natura (che è più che lecito) e non per le sue modalità di lavoro? Prendersela con un giornalista italiano solo ed esclusivamente quando di mezzo c’è un mafioso. Se, invece, adotta un fare accomodante e lassista con esponenti della classe sociale e politica dirigente (magari implicati anch’essi in diatribe o condanne giudiziarie), allora, va bene? Si veda lo spazio dato a Dell’Utri o a Berlusconi in passato, piuttosto che ai vari Busi o, addirittura, più recentemente ai Foffo di sorta; che non sapevano nulla, riguardo al figlio, semplicemente dipinto come “un ragazzo modello”. Allo stesso modo, è normale quindi che Vespa – giornalista – abbia ogni anno il premier incaricato alla presentazione di un suo libro. In quel caso, l’oggettività non è rilevante. Si tratta di mestiere. Certo.
Si bada sempre troppo al chi, piuttosto che al come. In ogni settore informativo e argomento trattato: morti ammazzati, sì. Col plastico, in diretta, ma solo se l’efferatezza risale ad almeno cinque anni prima. Così c’è tranquillità, speculare sui morti del passato non è grave. Parlare informalmente del delitto di Via Poma, ad esempio, con dieci ospiti in studio alimentando una discussione da bar piuttosto che un’analisi dettagliata sulla vicenda, è un toccasana per l’Italia e gli italiani che pagano – anche in quel caso – il canone. Questo per ribadire che l’informazione, quella becera, senza pudore che non si ferma davanti a nulla, sono anni che esiste e che viaggia su binari preferenziali che strizzano l’occhio all’intrattenimento piuttosto che alla veridicità. La mafia in tivù crea sgomento, ma non dovrebbe essere la sola cosa a far intirizzire e rabbrividire un pubblico. La pelle d’oca dovrebbe venire anche quando ritroviamo Pietro Maso ovunque a parlare di famiglia, come se niente fosse, dopo che ha annientato i genitori per intascare la sua parte d’eredità. A distanza di venticinque anni, lo rivediamo su giornali e televisioni (e ci starebbe bene un punto interrogativo, nel senso di stupore) immortalato come un adone che confessa: “Ho scritto una lettera al Papa – racconta – in cui mi scusavo per quello che ho fatto 25 anni fa e pregavo per la pace. Dopo qualche giorno ha suonato il telefono: ‘Sono Francesco, Papa Francesco”. Da qui è partito un tam tam giornalistico di conduttori e non solo che volevano intervistarlo, per fare una “chiacchierata informale” stile Vespa, dove la redenzione e il “ritorno del figliol prodigo” sarebbero stati gli argomenti principe. Solo che, in tal caso, la mafia non c’entra e quindi trattasi di normale amministrazione e non sciacallaggio mediatico. Soprattutto quando, poco dopo, minaccia le sorelle con la frase: “Finisco il lavoro iniziato 25 anni fa”. Lì non si è badato troppo alla forma, infatti, la stampa cartacea e televisiva della vicenda sottolineò come Don Mazzi e altri benpensanti potessero aiutare “quest’anima pia in totale delirio d’onnipotenza”. Definire un pluriomicida “anima pia” – a livello giornalistico – non è certamente il massimo dell’oggettività ma nessuno scattò sulle sedie, gridando allo scandalo. Eppure, chi guarda la tivù, paga anche per questo: per criticare (giustamente) Vespa che apre la porta a troppi, senza capire che è soltanto la punta di un iceberg fatto di modalità e tempistiche superficiali che i più chiamano servizio pubblico. A questo punto, potremmo aspettarci solo la “fine dell’umanità” come asseriva Silverman. Ma Darwin non c’entra, Antonio Campo Dall’Orto sì.
Articolo di Andrea Desideri