La malattia di Huntington è stata scoperta per la prima volta dal medico americano George Huntington nel 1872 e, paradossalmente, parecchi anni dopo il Duemila – otto per la precisione – è stata portata alla ribalta da un altro medico statunitense: Gregory House. Il primo ne identificò la forma, individuando tre caratteristiche principali: la tendenza al suicidio e al disturbo mentale, l’ereditarietà e la natura progressivamente invalidante. Il secondo la ripropose all’attenzione di un pubblico, grazie alla televisione, con una delle serie più fortunate di sempre. Infatti, “Dottor House” ha ciclicamente descritto la medicina – e quindi la sanità – pubblica e privata sotto una luce diversa: tramite un burbero, capace di vivere il suo lavoro in maniera profonda e seria con l’aiuto di un cinismo e una logica disarmante, faceva emergere infamie e lodi di un sistema sanitario – quello americano – rivedibile sotto molti punti di vista. Un terzo occhio più che indiscreto che, dal 2004 al 2012, ha guardato la società yankee nel profondo, cogliendo aspetti e peculiarità sconosciute ai più. Le patologie non erano altro che una continua occasione di confronto, fra stereotipi sociali e tendenze culturali, che portavano in auge l’eterna diatriba tra etica e scienza, morale e ragione.
Questo significava, spesso, prestare il fianco all’ignoto. A ciò che era caduto nell’oblio, perché anche, e soprattutto, la ricerca scientifica è ricca di pertugi inesplorati o poco conosciuti. Quindi, ecco riaccendersi il campanello d’allarme sulla malattia di Huntington, una patologia che equivale all’Alzheimer, il Parkinson ed altre disabilità in maniera simultanea, che porta a gesti inconsulti e movimenti involontari (da qui il nome “Còrea” di Huntington, dal greco “danza”), seguiti da sbalzi d’umore improvvisi e disturbi cognitivo-comportamentali. Sugli schermi televisivi è stata lanciata come una novità inaspettata, visto che, nonostante negli anni si sia fatta strada sia negli Stati Uniti che in sud America (seimila casi anche in Italia), ancora non viene totalmente riconosciuta. Anzi, spesso è completamente ignorata per via della povertà e dell’ignoranza di alcuni popoli, che scambiano le persone affette da Huntington per possedute, e a causa delle esigue scoperte fatte in merito a possibili cure. A tutt’oggi, infatti, è considerata una patologia incurabile. Tuttavia, scava nell’indifferenza e nello stupore generale, tant’è che persino Papa Francesco – a maggio di quest’anno – ha voluto affrontare il problema: “Per troppo tempo le paure e le difficoltà che hanno caratterizzato la vita delle persone affette da Huntington hanno creato intorno a loro fraintendimenti, barriere, vere e proprie emarginazioni. In molti casi gli ammalati e loro famiglie hanno vissuto il dramma della vergogna, dell’isolamento, dell’abbandono”. Una vita passata fra incredulità e sgomento che David Shore aveva già sintetizzato agli inizi del 2008, quando, nella nuova squadra del Dottor House, comparve Remy Hadley. Quasi trentenne, bella, sfrontata, specializzata in medicina interna, molto riservata e soprattutto portatrice sana della malattia di Huntington (così come lo era sua madre).
Questa donna è il pretesto per affrontare qualcosa di scomodo ma necessario, proprio com’è il decorso di una patologia degenerativa, ignota e sconcertante a tal punto che chi ne è affetto è ridotto ad essere un numero fra tanti incompresi. Infatti, la stessa Hadley si fa chiamare Tredici – il numero assegnatole durante la gara indetta da House per selezionare la sua nuova squadra – a testimonianza di una ritrosia generale (prima sociale e poi culturale) nell’introiettare determinate situazioni border line. Nel corso delle stagioni assistiamo ad una vera e propria via crucis della donna che rispecchia il cammino di altrettante persone affette dalla stessa sindrome: inizialmente c’è la riluttanza a voler scoprire lo stato della malattia, successivamente una rabbia incontrollata che porta a vivere periodi vitali molto intensi e travagliati, infine il quesito che arriva a solleticare le coscienze: eutanasia sì o no? In tal caso, Tredici si prende le proprie responsabilità e anche qualche rischio. Quindi va in galera – consapevolmente – per aver aiutato il fratello a morire (il primo caso di suicidio assistito in una serie tv) e sceglie di affidarsi ad House per il futuro. Sarà lui, infatti, che dovrà aiutarla ad andarsene al momento opportuno. La puntata finale dell’ottava stagione, dal titolo profetico “Tutti muoiono”, spiega proprio le scelte drastiche di chi è costretto a convivere con malattie degenerative e non sempre viene inquadrato al meglio nel contesto in cui vive.
“Incontrando i malati e le persone a rischio abbiamo ragionato insieme a loro sul modo migliore di affrontare il problema, su come dare in modo comprensibile le informazioni scientifiche sulla malattia e i possibili risvolti del test sulle loro vite – spiega la genetista Marina Frontali, ricercatrice del Cnr –. Ogni volta abbiamo di fronte una persona che ha diritto di comprendere, e quindi decidere se sapere o meno del proprio futuro genetico. E va accompagnata anche dopo che ha preso una decisione, a partire dalla comunicazione del risultato – che andrebbe fatta alla presenza di genetista, psicologo e neurologo – fino ai follow-up successivi”. Chi soffre di Huntington passa le giornate incastrato nel limbo dell’incertezza, accompagnato dallo scetticismo di chi lo circonda, spesso si vergogna a chiedere aiuto poiché non sa come farlo. La patologia è tutt’altro che semplice da rintracciare, malgrado siano stati fatti piccoli passi avanti nel corso degli anni. Lo spauracchio Huntington sta facendosi largo, pian piano, anche in Italia. E’ bene prendere coscienza di determinate situazioni limite, che la televisione può veicolare inizialmente, per far scattare qualcosa in più nell’animo umano allontanando l’indifferenza.
Articolo di Andrea Desideri