Il romanzo di Andrea Michelotti ci racconta una società distopica, ma senza angoscia. Anzi, talvolta con spunti comici
Funzioni – di Andrea Michelotti (Ensemble)
Dal sito dell’editore
Ivan Raversi è un quarantenne ancora costretto a vivere con i genitori, a mendicare affetto e a barcamenarsi nella ricerca di un’occupazione. Un nuovo impiego è l’occasione per risolvere tutti i suoi problemi. Ma a che prezzo? Ambientato in una città-laboratorio – isolata ed esausta, vigilata e incasellata in protocolli molto rigidi – questo romanzo, tra distopia e metafora del presente, racconta il nostro tempo stretto nella morsa della precarietà esistenziale, dell’edonismo, dell’eccessivo controllo delle nostre vite e del confine sempre più invisibile tra pubblico e privato.
Recensione
Perennea, città immaginaria in un futuro non troppo lontano. È una città chiusa, si può uscire solo con un permesso e nessuno vi è mai entrato. Ma è meglio così, dato che fuori, stando alle notizie che danno in televisione, vige il caos, l’inferno: guerre, epidemie, povertà, nessuno è al sicuro. Ma nemmeno a Perennea se la passano molto bene e qualcuno ha iniziato a mettere in discussione il sistema. Si incontrano, discutono, progettano un nuovo modello economico. Ma non Ivan. Lui no. Lui accetta la situazione, gli sembra che in fondo, nonostante sia senza lavoro, viva ancora coi genitori e non abbia prospettive, non si stia così male. L’alternativa proposta dal suo amico Piero non è praticabile, non ha senso. Ogni economia si basa sul denaro, sulla domanda e sull’offerta, e il pagamento non può che avvenire coi soldi, non certo con lo scambio di favori. Non si va da nessuna parte con quelli, non si può mangiare né acquistare ciò che serve. Oggi il primo prodotto, la prima cosa che viene venduta e comprata sono le persone, la nostra dignità. Io non voglio essere comprato: è un ricatto, Ivan, un brutto ricatto. Dobbiamo smettere di accettarlo. Le cose cambieranno. Gli vuole bene Piero, sono amici, cerca di mostrargli ciò che è la loro vita, ma a Ivan va bene così, non vuole cambiare. L’Agenzia, che monopolizza ogni attività e impresa all’interno di Perennea, sa quello che fa.
Finalmente Ivan ha un lavoro fisso e ben retribuito. A nulla valgono le parole del suo amico: nulla è più importante dei soldi che gli permettono di vivere come vuole, comprare ciò che vuole, senza più limiti. Poco importa il genere di lavoro, lui è bravo, si impegna, segue le direttive. Finché qualcosa va storto. E allora si rende conto che quel sistema è malato, che non va bene, che annulla le persone, le schiaccia. Ma è troppo tardi. Ha avuto tempo e modo per ribellarsi, per non adattarsi, per tentare qualcosa di diverso, ma non lo ha fatto. E ora ne paga le conseguenze. Ha accettato il sistema, nel bene e nel male, non è riuscito o non ha voluto vedere che cosa fosse realmente. Non c’è pietà per miopi e ingenui.
Ricordo, adesso ricordo, anche se c’è nebbia nei miei pensieri. Mamzen e le mie missioni.
“Chiamami Ivan… E qual è la mia nuova mansione?”
“Cavia”
Rimango interdetto, vagamente stupito: speravo di avere un ruolo più attivo, date le referenze del mio ultimo impiego.
“Non ricordo di aver dato l’autorizzazione…”
“Le clausole del suo contratto prevedono la possibilità di utilizzarla come cavia per le ricerche dei centri sperimentali dell’Agenzia”.
Non si leggono mai le clausole in piccolo”.
Un distopico che ci ricorda dove viviamo noi, adesso. Una società che cerca di chiudersi per preservare il proprio benessere, di tenere fuori le minacce, di gestire tutto in una sola direzione. Un pensiero unico omologato. Alcune persone che cercano di cambiare le cose, che si attivano, a fronte della maggioranza che accetta, sperando nella bontà della società, nel fatto che la fortuna, prima o poi, gira per tutti. Forse.
Una società, nel libro come nella realtà, dove si cerca di trasformare le insicurezze in opportunità, come la precarietà.
Un solo lavoro per tutta un’esistenza è una condizione demotivante. È ampiamente dimostrato che variare attività con un certa frequenza mantiene alto il livello di vitalità, concentrazione e ambizione”.
Nonostante sia un distopico, non ne ha l’apparenza. Non c’è quella sensazione persistente di angoscia per la catastrofe imminente. Anzi, è piuttosto ironico in molti passaggi. Però nel leggerlo ho provato fastidio per Ivan, per la sua voglia di avere tutto e subito, senza pensare, senza riflettere, senza considerare l’altro. La sua compulsione ad accumulare cose e complimenti, ammirazione e stupore nei suoi confronti. Cose vuote, senza futuro. Del resto è degno figlio di suo padre: un padre che è evidente non approvi le sue scelte, ma che non si fa problemi ad approfittarne.
Piero invece appare come un sognatore, un illuso, ma la sua figura è una boccata d’aria, una luce nel mare di spazzatura (letteralmente). Il futuro che vorremmo, qualcosa di nuovo, di diverso, di più umano.