Negli Stati Uniti è stata sviluppata una tecnica in grado di contrastare alcune malattie genetiche. L’esperto ci spiega di cosa si tratta
Grandi prospettive dagli Usa. È di meno di un mese fa la notizia che ha dato forza e speranza alla comunità delle persone con patologie neuromuscolari: “La terapia genica diventa realtà per sette malattie – recita un comunicato stampa di GFB Onlus, associazione co-finanziatrice dei progetti sulle distrofie dei cingoli -. I progetti, tuttora in corso presso l’Università di Columbus, Ohio, sono condotti dai professori Mendell e Kaspar e riguardano sette malattie: la Sma, la distrofia muscolare di Duchenne e cinque forme diverse di distrofia dei cingoli”.
Lo scorso luglio la presidente di GFB Onlus, Beatrice Vola, ci aveva anticipato l’ottimo andamento degli studi americani. Cerchiamo adesso di comprendere l’entità dei risultati e soprattutto come funziona la tecnica studiata, con Carlès Sanchez Riera, scienziato catalano trapiantato a Roma da quattro anni, membro del comitato scientifico dell’associazione valtellinese.
Terapia genica: cos’è e come funziona. “La tecnica della terapia genica – ci spiega il dottor Sanchez Riera – è conosciuta dagli anni Ottanta, ma non era ancora stata utilizzata per le nostre malattie a causa della grande complessità che comporta. In poche parole, consiste nel prendere un virus inocuo per le persone (AAV9, in questo caso) e svuotarlo, per poi riempirlo con un gene sano (il gene corretto che vogliamo introdurre nel DNA difettoso). Il virus funge da veicolo per far arrivare il gene corretto al suo posto. Ma ci sono miliardi di cellule nel corpo umano, quindi, prima di introdurre il virus, questo deve esere prodotto in quantità gigantesche. Una volta che abbiamo migliaia di virus con la copia corretta del gene, questi vengono introdotti nel corpo del paziente con un’iniezione nel sangue. A questo punto, se non è stato distrutto delle difese del corpo, il virus fa il suo lavoro, ovvero infettare e introdursi nell genoma. Questa tecnica permette di introdurre una copia sana del gene mutato delle nostre patologie (malattie cosiddette ‘monogeniche’, ovvero che dipendono da un solo gene) e quindi di correggere le malattie attaccando la causa e non le conseguenze come si è tentato di fare fino adesso con steroidi, regolatori del calcio, antifibrotici, cellule staminali eccetera”.
Un trattamento per la Sma1. La rivista The New England Journal of Medicine ha pubblicato lo scorso 2 novembre l’articolo Single-Dose Gene-Replacement Therapy for Spinal Muscular Atrophy, nel quale i professori Mendell e Kaspar di Columbus, Ohio, riportano gli strepitosi risultati salva-vita ottenuti su quindici bambini con Sma1, trattati con la terapia genica.
“L’atrofia muscolare spinale di tipo 1, detta Sma1, è una malattia progressiva e monogenica che colpisce il motoneurone – continua Carlès Sanchez Riera -. Affiora nella prima infanzia, causando problemi di respirazione e gravi problematiche di mobilità, provocando la morte intorno all’età di due anni. L’équipe di Jerry Mendell a Columbus, Ohio, ha presentato uno studio di due anni fatto con bambini da tre a sei mesi, utilizzando come trattamento la terapia genica. Alla data di fine studio, 7 agosto 2017, tutti i bambini sono rimasti in vita; normalmente, la sopravvivenza del bambino a questo stadio è intorno all’8%. All’età di venti mesi nessun bambino presentava complicazioni respiratorie. Inoltre, dei dodici bambini che hanno ricevuto una dose maggiore di virus, undici potevano sedersi senza assistenza; undici potevano deglutire autonomamente e parlare; due, addirittura, sono stati in grado di camminare. Nonostante questi progressi più che notevoli, altri studi devono essere fatti per confermare l’efficacia e la sicurezza di questa terapia”.
Quali altre malattie potranno beneficiare di questa terapia? Cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Sanchez Riera traccia un possibile calendario: “Per svilupare questa terapia si è costituita la company Myonexus in Ohio, Usa, con participazione diretta della nostra associazione. La company prevede di far partire verso il 2020 i trial clinici in Italia e in altre parti del mondo. Per il 2027 dovremmo aver sviluppato una cura per cinque malattie neuromuscolari: tre sarcoglicanopatie (alfa, beta e gamma), la disferlinopatia e la Sma1. Inoltre un’altra svolta epocale si verificherà a breve, quando partirà un trial clinico di terapia genica per la distrofia muscolare di Duchenne, grazie ad un progetto del professor Mendell. Il Nationwide Children’s Hospital ha ricevuto il nulla osta per avviare il programma di terapia genica per la distrofia muscolare di Duchenne. Quindi direi che nel prossimo futuro ci aspettano cose incredibili!”.
È necessario rimanere sempre coi piedi per terra. “Lasciatemi finire con un appunto, perché sì, è vero che siamo fortunati a vivere in questa epoca e vedere queste scoperte, ma non dobbiamo perdere la lucidità presi dall’entusiasmo. Ci sono ancora tante cose da capire e tante cose da fare. Non possiamo fermarci finché ci saranno ancora malattie che non possono essere curate. Non possiamo dimenticare che, paralellamente a queste scoperte affascinanti, ci sono ancora molti pazienti che non hanno neanche una diagnosi. Quindi il nostro compito è di continuare ad avanzare, sempre più uniti e sempre piú protagonisti. La salute è una cosa preziosa, non dev’essere una materia esclusiva di tecnici e scienziati. Dobbiamo lavorare insieme, malati, familiari, scienziati, politici, educatori, assistenti, per perseguire un’obiettivo comune ed avere la garanzia che di queste scoperte beneficeranno a tutti”.
Qualche nota su Carlès Sanchez Riera. Chiediamo al nostro intervistato una sua biografia: “Ho trentaquattro anni – risponde – e sono nato a Barcellona (Spagna). Ho visuto la mia giovinezza in un piccolo paese della Catalogna. Come succede spesso nei paesi piccoli, la mancanza di stimoli commerciali (cinema, negozi, videogiocchi…) porta a sviluppare molto l’immaginazione, quindi ho cominciato a coltivare molti interessi e a svilupare anche una sensibilità per le problematiche sociali. Seguendo questa stella, all’università decisi di studiare assistenza sociale, per poi lavorare con bambini, immigrati ed ex carcerati. Ma volevo fare di più, quindi andai in Germania come volontario nel Programa Gioventú dell’Unione Europea. Tornato in patria, rientrai all’università per studiare Biologia, coerentemente con la mia idea di occuparmi del benessere della comunità, ma da un punto di vista diverso. Grazie alla biologia ho scoperto un mondo invisibile ma presente in ogni cosa che se muove, il mondo delle cellule e della microbiologia. Tutte queste premesse, sommate alla mia situazione personale (sono anch’io un mutante! Ho una beta-sarcoglicanopatia, che ogni anno si fa piú sentire) indirizzarono il mio percorso accademico verso la conoscenza di cosa c’è dentro di noi e intorno a noi, ed ecco che mi misi a studiare la rigenerazione muscolare. Attualmente ho finito il PhD alla Sapienza e il mio convolgimento nel mondo scientifico, delle associazioni e delle terapie vuole essere ogni volta maggiore e piú efficace”.
Il fatto di essere tu stesso un paziente ha influenzato il tuo percorso lavorativo? “Sì, molto – conclude Carlès -, anche se devo dire che la parola ‘paziente’ non mi piace molto. La maggioranza delle persone che ho conosciuto con una malattia ha tutto meno che pazienza! Più passa il tempo e più capiscono che la gestione del propio corpo non può essere delegata. Per anni è stata la Chiesa a controllare i nostri corpi e la nostra volontà. Poi è arrivato il razionalismo e questo dominio è calato. Oggi spesso deleghiamo le nostre responsabilità a scienziati, esperti o politici, che non sempre rappresentano i nostri interessi. Credo che dobbiamo, invece, collaborare ed interessarci in prima persona di ciò che ci accade. Questa ricerca di autonomia e conoscenza è ciò che ci permette di essere già ‘sani’, prima ancora di aver ricevuto una terapia”.
Articolo di Manuel Tartaglia