Uno sguardo al tramonto, l’occhiata distratta ad una foto, la curiosità nel vedere un’opera. Mille emozioni, più o meno celate, durante le vacanze. Non sempre d’estate, non solo al caldo, comunque in previsione. Prima c’erano le cartoline, ora ci sono gli scatti sui cellulari, insomma passano le epoche, cambiano i tempi, ma di meravigliarsi non si finisce mai. Sarà per questo che molti le ferie le passano andando in giro per musei, turisti o semplicemente amanti della cultura. Anno dopo anno, la domanda aumenta e l’offerta si adegua per non privare nessuno della possibilità di ammirare l’arte. Certo, l’Italia è avvantaggiata: godiamo di un patrimonio artistico notevole, e non lo scopriamo oggi. Quel che è meno noto è che la bellezza, così come è capace di dare, può togliere. Il fiato, le parole, ed anche la salute. Se n’è accorto per la prima volta, nel 1817, lo scrittore francese Merie Henri Beyle – meglio conosciuto come Stendhal – mentre passeggiava per Firenze. L’uomo, guardando le numerose opere d’arte che si trovano nel capoluogo toscano, fu colto improvvisamente da sintomi inspiegabili: “Là, seduto su un gradino di un inginocchiatoio, la testa abbandonata sul pulpito, per poter guardare il soffitto, le Sibille del Volterrano mi hanno dato forse il piacere più vivo che mai mi abbia fatto la pittura. Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere”. Lo scrittore descrive minuziosamente i primi sintomi di una patologia inusitata per l’epoca, ben presto i suoi appunti all’interno de “Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio” diverranno la prima fonte certa della sindrome che prenderà il suo stesso nome.
Dal punto di vista scientifico, la sindrome di Stendhal esiste e può definirsi un vero e proprio disturbo – a carattere transitorio – che tende a manifestarsi con diverse tipologie di attacchi di panico di natura euforico-depressiva e di dis-percezione del mondo che circonda il soggetto che ne è afflitto che assume forma persecutoria. La sintomatologia più comune comprende: accelerazione del battito cardiaco, allucinazioni, giramenti di testa, confusione e vertigini. Si verifica non appena ci si sofferma dinnanzi a un capolavoro artistico, non solo di rara bellezza, ma che sia in grado di comunicare sensazioni vivide, emozioni intense, nell’arco di spazi limitati. Può coinvolgere qualsiasi tipo di arte, dalla pittura alla musica, e manifestarsi con qualsivoglia artista. L’incidenza di questa patologia sembrerebbe essere alquanto scarsa per il turista italiano, si pensa addirittura possa esserne assolutamente immune, in quanto convive quotidianamente a contatto con dei capolavori ed esempi d’arte rilevanti. Ormai si stupisce più per un bastone da selfie che per un dipinto. Non può dirsi lo stesso per il resto degli europei o asiatici che desiderano intensamente relazionarsi col bello, che magari da loro scarseggia, come nel caso dei giapponesi: primi in fatto di tecnologia e nuovi media, ma costretti a rifarsi gli occhi altrove. Per questo non si separano mai dalle loro macchinette fotografiche per catturare più momenti possibile e portare a casa meravigliose testimonianze artistiche.
La sindrome, neanche a dirlo, è più frequente nelle città con maggiori capolavori artistici. Firenze, ad esempio, fu fatale a Stendhal. Tanto che la patologia è definita anche sindrome di Firenze: “Vedi Napoli e poi muori”, passando agli Uffizi svieni. Potremmo sintetizzare così una questione molto più ampia, che ha trovato riscontro negli scritti della psicologa Magherini: “La sindrome si manifesta più facilmente in quegli individui che hanno molta sensibilità, che si lasciano facilmente suggestionare e che sono dotati di tanta immaginazione. E difatti durante le crisi prendono anima profonde vicende della realtà psichica fino a riattivare la vitalità della personale sfera simbolica. Il viaggio diviene anche, nelle tanto attese soste nelle sognate città d’arte, un’occasione per meglio conoscere sé stessi”.
Da tempo si parla di “turismo dell’anima”, perché si riflette e si indaga su come una patologia del genere possa colpire in maniera così eterogenea e inaspettata. Inoltre è democratica e soggettiva, proprio come la bellezza e l’arte, può verificarsi in molteplici forme e modi. In maniera sempre diversa, a seconda dell’individuo. Chi viene colpito dalla sindrome di Stendhal non gode più delle emozioni che le opere d’arte, i capolavori artistici, gli possono offrire. Cade, invece, tristemente preda a stati d’angoscia, prestando il fianco a difficoltà nella gestione delle proprie emozioni che non fanno parte del proprio “io più interiore”. Ci sono tre fattori principali che prendono forma – è il caso di dirlo – parallelamente sino a convergere: il viaggio, per quanto può essere perturbante, la bellezza delle opere d’arte e il proprio vissuto. La sindrome di Stendhal è l’intersecarsi di variabili impazzite, alimentate da un solo motore: la curiosità, capace di stravolgere equilibri col fascino dell’imprevisto.
Articolo di Andrea Desideri