Dopo aver ricevuto l’appello di Antonietta S., l’abbiamo contattata per dare voce a chi si trova ad assistere un familiare con disabilità senza l’aiuto delle istituzioni
“Non è mia abitudine mettere la mia vita in piazza”. Ma Antonietta S., giovane mamma caregiver di un bambino con autismo, non ha trovato altro modo per provare a far sentire la propria voce e ricevere l’aiuto che merita. “Ho quarantasei anni, sono di Roma e vivo a Roma. Da poco ho perso il mio lavoro, gestivo un bar a conduzione familiare, ma ho dovuto chiudere. Era stato difficile con il Covid, ancora più difficile con i rincari della guerra e i debiti che ho dovuto contrarre di conseguenza, ma è stato impossibile andare avanti quando nessun’altro poteva occuparsi di mio figlio. Io vengo da una famiglia umile, mamma casalinga e papà commerciante ambulante. Da dieci anni a questa parte ho perso tutti. I miei genitori e anche mio fratello due anni fa, in seguito a un intervento di chirurgia”. Proprio da questo momento Antonietta capisce di dover pensare al futuro di suo figlio quando lei non potrà più occuparsene “la vita non è imprevedibile, a volte è proprio assurda e non potevo lasciare mio figlio in balia del caso”. Il figlio in questione è Giorgio (nome di fantasia), un bambino di dieci anni che, come dicono le sue maestre, è “bello, bravo e buono”; tuttavia ha anche un disturbo dello spettro autistico moderato e, nonostante le sue innumerevoli qualità, esistono situazioni che possono metterlo a disagio o invalidare alcuni aspetti della sua vita. Giorgio è partito da un autismo di livello tre, non verbale, gravissimo, con la terapia privata per quattro volte a settimana è migliorato molto, ma per funzionare queste terapie devono essere continue e costanti. Un assegno statale di poche centinaia di euro non è sufficiente. “Giorgio ha bisogno di costose terapie e di qualcuno che lo segua costantemente e se ne occupi. Quella figura sono io”.
Ogni giorno per Giorgio è un continuo mettersi alla prova: sì, è sicuramente bravo, bello e buono, ma a scuola non viene capito quanto impegno ci mettano madre e figlio solo per tentare di essere al livello dei suoi compagni di classe. “Trattano mio figlio come se non avesse una disabilità, dicono di non preoccuparmi, ma lui non riuscirebbe a stare al passo con i compagni, se non ci mettessimo tutti i giorni a utilizzare metodi alternativi per il suo apprendimento. Serve un utilizzo massiccio di mappe concettuali; Giorgio collega molte informazioni con le immagini. Io questo lo so, sto studiando per lui e per me. Per imparare a conoscerlo e per aprirmi una nuova strada lavorativa, sto cercando di diventare assistente educativo scolastico. Lavorare a scuola, tra l’altro, mi permetterebbe di avere orari più compatibili con quelli di Giorgio ed è l’unica alternativa che ho, data la mancanza di una rete familiare che mi possa aiutare. Ha l’insegnante di sostegno per il massimo delle ore, ho dovuto lottare anche per questo. Sono stata abbandonata dalle istituzioni”. Sia da quelle scolastiche, sia dalle istituzioni politiche e sociali “Ho persino scritto alla Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica. Le loro segreterie mi hanno rimandato alle strutture pubbliche o alla Ministra Locatelli, con cui avevo già preso contatto diversi mesi fa”. Risposte, comunque, che ancora oggi tardano ad arrivare con una soluzione.
“Situazioni come queste ti gettano nell’abisso della disperazione. Io riesco ad alzarmi ogni mattina solo perché so che lo devo fare per lui. Ti va via tutto: l’entusiasmo, l’amore per la vita. Però nello stesso momento c’è l’amore per il figlio e quel senso di responsabilità viscerale. Solo tu puoi fare qualcosa. Ti alzi dal letto, ti lavi, ti vesti e vai avanti. A volte io mi sento un robot, svuotata di qualsiasi emozione. Quando non lavoravo e stavo a casa senza di lui, mi chiedevo, ‘e adesso che faccio?’. Ho dovuto imparare a vivere in funzione di mio figlio. E senza di lui non ho più un mio stimolo personale. Io come persona non esisto più”.
Le amministrazioni che dovrebbero sollevare o perlomeno alleviare i caregiver da questa situazione versano in pessime condizioni: “mi auguro si attivino con le risorse che già esistono. Che non si nascondano più dietro la mancanza di fondi, perché spesso questi vengono rispediti indietro. Se ogni istituzione rispettasse quello che è la Legge, ossia che lo Stato deve rimuovere ogni ostacolo che nuoce alla salute della persona, i caregiver smetterebbero di soffrire. Perché è una vita di sofferenza, è un’agonia. Il genitore caregiver ha una preoccupazione più elevata degli altri genitori, perché il figlio non potrà mai essere autonomo. Se solo le terapie fossero offerte tempestivamente e fossero appropriate, e l’assistenza domiciliare non fosse vincolata a liste d’attesa o limiti di ore… oppure se le organizzazioni private collaborassero con costi sociali, sarebbe più umano. Le famiglie e i bambini potrebbero avere una vita più serena e semplice.”. Oltre alle preoccupazioni, ci sono anche le spese per le terapie e le cure. “Io non ho i soldi, e molti altri non li hanno. Eppure, quanti stipendi risparmia lo Stato grazie ai caregiver? Svolgono diverse mansioni: sono genitori, insegnanti, psicologi, terapisti”.
L’appello finale di Antonietta è un invito a mostrare alle istituzioni la situazione in cui versano queste famiglie, di vedere quanto è difficile, perché non possono capire se non toccano con mano queste situazioni. “Fare la spesa deve diventare una cosa normale anche per noi. Non possiamo spiegare a cinquanta persone in fila che il bambino è disabile e si agita moltissimo all’interno di un supermercato. È la nostra società che deve cambiare, adesso è più pronta ad accogliere la disabilità fisica, ma quella neurologica è ancora accolta in modo impreparato, disinformato e spaventato. Ma noi non siamo storie, non siamo casi. Noi siamo la normalità di moltissime famiglie”.
(Angelica Irene Giordano)