Un casco bianco, una tuta e attraversare lo spazio. Da bambini, tutti abbiamo sognato un destino simile: fare l’astronauta. Esplorare l’inesplorato, volteggiare nell’aria e sfidare la gravità, per riscrivere la storia. “Verso l’infinito e oltre”, diceva Buzz Lightyear in Toy Story, e spesso quell’oltre è sinonimo di anni d’esperienza e sacrifici ignoti ai più. Infatti, la maggior parte delle volte, i sogni d’infanzia rimangono chiusi in un cassetto che viene aperto ogni tanto, nel corso degli anni, ripensando a come sarebbe andata se effettivamente avessimo intrapreso una carriera piuttosto che un’altra. Quindi, la tuta d’astronauta e le fantasie che ne derivano restano una piacevole suggestione in cui cullarsi. Chi, invece, ha avuto la forza di estrapolare quella divisa dal mondo delle idee, facendone quindi una vera professione, conosce perfettamente oneri e onori del caso. Prima di poter partire per lo spazio, gli astronauti devono sottoporsi a centinaia di ore d’addestramento, suddivise in tre sezioni principali: inizialmente, vi è un periodo – che dura all’incirca un anno – in cui gli aspiranti astronauti apprendono i primi rudimenti delle tecnologie e delle scienze spaziali, chiamato addestramento base, dove vengono impartite anche alcune nozioni mediche fondamentali: viene insegnato loro come immergersi con i respiratori. Superata questa prima fase, segue un ulteriore corso annuale d’addestramento – stavolta avanzato – dove si apprende in maniera più dettagliata il funzionamento delle varie parti dell’ISS (Stazione Spaziale Internazionale), l’importanza dei veicoli di trasporto, la procedura degli esperimenti, nonché le attività svolte dal controllo a terra. Soltanto dopo il superamento di quest’ultima parte, gli astronauti possono essere assegnati ad una missione. Due anni duri e interminabili, una vera e propria Odissea. Questo per dare un’idea di quanto sia arduo e per nulla scontato coltivare certe ambizioni.
In Italia, abbiamo imparato a conoscere alcuni aspetti legati alle missioni spaziali grazie alla figura di Samantha Cristoforetti – prima astronauta italiana negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea – che con la missione ISS Expedition 42/Expedition 43 Futura del 2014-2015 ha conseguito il record europeo e il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo (199 giorni). Ci ha raccontato la sua avventura nello spazio a colpi di tweet (celebri gli scambi di cinguettii tra Fazio e la Cristoforetti durante “Che tempo che fa”), inoltre la sua impresa è stata celebrata anche attraverso un documentario, “AstroSamantha”, in cui si racconta la storia del viaggio del capitano dell’Aviazione Militare per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale nella missione “Futura” partita il 23 novembre 2014. Una traversata descritta in tutte le sue fasi: dalla preparazione fisica, alla scoperta di luoghi e persone che hanno accompagnato Samantha a divenire l’astronauta europeo ad aver trascorso più tempo nello spazio in un singolo volo, 199 giorni, 15 ore e 42 minuti consecutivi, oltre ad essere stata la prima persona nello spazio ed essere diretta da un regista sulla Terra. Il progetto filmico è valso alla Cristoforetti un premio speciale ai Nastri d’Argento 2016, riconoscimento da aggiungere ai tanti elogi e complimenti ricevuti: non ultime le medaglie al valore su iniziativa del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2015.
QUESTIONE DI PHILLIPS – Se Samantha è la nostra eroina, per certi versi, colei che è riuscita a far guardare in alto milioni di persone e, quindi, rinnovare l’interesse per le materie astrali, c’è anche chi dimostra quanto questo lavoro nasconda molte insidie. Una sorta di astronauta sfortunato che, a modo suo, ha fatto scoprire qualcosa di nuovo – una patologia – grazie alla vicenda che l’ha visto protagonista. Qualche anno fa, John Phillips, durante una permanenza di sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale, aveva notato che la Terra gli sembrava sfuocata, ma aveva pensato ad un problema temporaneo e inizialmente non aveva dato peso alla cosa. Se non fosse che, tornato dalla missione, la sua vista si era ridotta ad appena due decimi. Insomma era quasi ipovedente. Un bel trauma dato che John ha sempre avuto 10/10 di vista. La NASA ha sottoposto Phillips a numerosi test e visite, scoprendo che i nervi ottici erano infiammati, il retro del bulbo oculare si era appiattito, e la retina aveva formato delle pieghe. Nel giro di altrettanti sei mesi, fortunatamente, la vista di Phillips è migliorata, arrivando a quattro decimi, ma non è mai più tornata ai 10/10 iniziali. Questo è il primo caso accertato di una malattia misteriosa che sembrerebbe colpire l’80% degli astronauti nel corso delle missioni di lunga durata nello spazio, la patologia è stata battezzata Visual Impairment Intracranial Pressure Syndrome (sindrome da perdita visiva per pressione intracraniale). Tale disturbo sembrerebbe dovuto alla riduzione della pressione intracraniale: sulla Terra, la gravità attira ogni fluido verso il basso. In condizioni di microgravità, però, questo effetto è totalmente assente. Quindi, potrebbero accumularsi liquidi nel cranio provocando un aumento di pressione nel cervello e verso il retro dell’occhio.
Verificare questa teoria è fondamentale quanto spinoso: l’unico modo piuttosto affidabile per procedere alla misurazione di pressione nel cranio è, infatti, quello che prevede l’apertura di un foro all’interno della scatola cranica: procedura altamente invasiva e rischiosa da effettuare nello spazio, i pericoli sono troppo alti. D’altro canto, però, è fondamentale capire rapidamente la natura della malattia per il futuro e la sicurezza dei viaggi spaziali. Anche perché diversi ricercatori temono che quello sulla vista sia solo l’effetto più evidente di una serie di danni che l’esposizione prolungata a microgravità potrebbero causare al corpo umano. Gli scienziati, però, non demordono e sono assolutamente intenzionati a trovare risposte e soluzioni. John Phillips dimostra che persino una “svista” può essere utile, dipende dalla “gravità” della situazione.
Articolo di Andrea Desideri