Intervista all’autrice di Nata Viva e RaccontAbili
Zoe è laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione, specializzata in Editoria e Scrittura alla Sapienza di Roma, curatrice del corso annuale dedicato alla disabilità nel master di Neuropsicologia dell’Età Evolutiva alla Lumsa di Roma. Dal 2011 promuove il progetto “Disabilità e narrazione di sé: come raccontare le proprie piccole e grandi disabilità”, rivolto agli alunni delle scuole primarie e secondarie di I e II grado per contrastare il bullismo. È anche autrice di due libri. Ci concediamo con lei una lunga chiacchierata.
Zoe Rondini è il tuo nome d’arte. Come mai hai scelto di utilizzare uno pseudonimo?
“È stata una scelta decisa con Matteo Frasca, il mio consulente letterario. Prima di mandare il testo agli editori ho cambiato tutti i nomi perché parlo di situazioni scolastiche, mediche, di fisioterapisti e anche di situazioni brutte e spiacevoli. Così ho scelto Zoe, che dal greco significa vita, che riconduce al titolo del mio libro, e Rondini perché mi ispirava la libertà”.
Come nasce la passione per la scrittura?
“A dieci anni ho conosciuto un logopedista in gamba, che mi ha aiutata e mi ha insegnato ad usare la macchina da scrivere e poi il computer perché fino a quel momento dettavo i miei temi all’insegnante di sostegno. Così, grazie a lui, ho conosciuto lo strumento, il PC e poi Internet. Inizialmente scrivevo per passare il tempo, poi per passione ho aperto il blog piccologenio.it, una finestra per farmi conoscere. Diciamo che per me la scrittura è stata come una terapia per superare i momenti di solitudine”.
Cosa ti ha spinto a scrivere due libri?
“Nata Viva è la mia autobiografia ed è uscita nel 2015. L’ho iniziata a tredici anni, quando c’è stato un lutto improvviso che mi ha portato a scrivere soprattutto i ricordi che mi legavano al secondo marito di mia madre, che non c’era più. Crescendo ho capito che c’era ancora tanto da raccontare sulla mia disabilità e le sue difficoltà.
RaccontAbili, invece, è un saggio polifonico, pubblicato a novembre 2020, nel quale intervisto trenta persone che vivono la disabilità, direttamente o indirettamente, perché volevo dar voce alle storie degli altri, fare da cassa di risonanza, dopo aver scritto e pubblicato la mia storia”.
La tua autobiografia Nata Viva è diventata successivamente un cortometraggio. Come è nata l’idea?
“Nata Viva è un romanzo di formazione, che racconta la mia vita dalla nascita all’università. Nel cortometraggio ho voluto inserire anche la parte adulta, quindi l’amore, la guida, l’indipendenza e il rapporto stupendo con mia sorella Daria. Così ho contattato la regista Lucia Pappalardo, che è stata bravissima e abbiamo iniziato a girare questo corto”.
All’interno del cortometraggio pronunci la frase “Pensavo che per me l’amore fosse una strada in salita”- Perché?
“Perché alle medie e soprattutto al liceo quando si comincia a sognare l’amore, le mie compagne avevano una storia o cominciavano a fare le prime esperienze, mentre io ero l’unica che non ne aveva e per un adolescente è dura. Anche se in quel periodo ho avuto la fortuna di parlare con mia madre liberamente di amore e sessualità. Poi a ventidue anni ho iniziato a fare le prime esperienze e la strada è andata in discesa”.
Hai difficoltà a muoverti e a parlare a causa della mancanza di ossigeno, durata per cinque minuti, al momento del parto. Come hai vissuto la disabilità nel periodo scolastico?
“Alle elementari guardavo gli altri bambini correre e saltare mentre io non ci riuscivo e non capivo il perché. Allora ho iniziato a fare un confronto, poi al liceo la mia famiglia mi ha spiegato il motivo del mio handicap. Col senno di poi, ringrazio medici e fisioterapisti perché senza di loro non avrei mai camminato e raggiunto dei traguardi fondamentali”.
Qual è il tuo rapporto con la disabilità, essendo una donna?
“È buono. Essendo cresciuta in un ambiente con donne molto forti e determinate, come mia nonna, mia madre e mia sorella, è stato più facile accettarla e non penso di essere mai stata discriminata in quanto donna sia a scuola che nel lavoro”.
Quanto pensi sia importante, per una persona con disabilità, avere un ambiente che ti sostiene, come il tuo?
“È importantissimo perché da piccola se non c’erano mia nonna e mia mamma non avrei mai camminato, non sarei mai arrivata alla laurea e a vivere da sola in una casa con una persona che mi aiuta e anche a guidare la macchina. Ma non tutte le famiglie hanno queste possibilità e questo carattere, a casa mia non si è mai detta la frase: ‘che lo fai a fare?’. È anche vero che le persone con disabilità hanno un ruolo importante e non devono assolutamente aspettare che la società si accorga di loro perché una persona inserita in un contesto sociale, culturale e lavorativo rimanda un’immagine completamente diversa da chi è obbligato a vivere a casa e senza contatti col mondo esterno.
Com’è il rapporto con tua sorella Daria?
“Abbiamo nove anni di differenza, da piccole ce le siamo date di santa ragione ma oggi è cambiato totalmente: è una mia amica, compagna, confidente, ci aiutiamo e sosteniamo, mi segue in tutti i miei progetti ed è la mia eroina”.
Dal 2011 curi e promuovi il progetto “Disabilità e narrazione di sé: come raccontare le proprie piccole e grandi disabilità”, rivolto agli alunni delle scuole primarie e secondarie di I e II grado per contrastare il bullismo. Che riscontro c’è stato da parte degli studenti e dagli insegnanti?
“Inizialmente pensavo: ‘adesso la prendono come ora di buco’. Invece mi sono stupita del loro interesse mentre raccontavo la mia nascita e la mia vita e intervenivano facendo domande, soprattutto i ragazzi delle medie, mentre in quelli delle superiori ho notato più timore di farmi domande. Adesso, causa COVID-19, continuo a combattere il bullismo grazie alla Dad, però preferisco tornare nelle scuole, anche perché mi sentivo utile”.
Quanto ha inciso secondo te la pandemia, che stiamo affrontando, sulle persone con disabilità?
“Ha inciso tanto. Grazie ai social conosco delle realtà che all’inizio hanno avuto problemi perché mancava l’assistenza domiciliare e i genitori non riuscivano da soli a gestire i figli, soprattutto quelli più grandi (magari allettati oppure autistici). Però ho notato che c’è più solidarietà e mi auguro che continui ad esserci anche una volta terminata l’emergenza”.
Quali sono le tutele che dovrebbero essere adottate?
“Sicuramente gli aiuti, che ci sono, ma sono pochi e si è visto durante questa pandemia. Partendo da quelli economici, che sono scarsi e non sufficienti per una persona che nel quotidiano ha bisogno di tante cose e di tante persone che la aiutano, mentre a livello culturale servirebbe più integrazione, a scuola e nel mondo del lavoro”.
Facciamo il punto della situazione: l’Italia come si posiziona?
“Indietro. La Convenzione Onu ha belle parole, che però in Italia non vengono rispettate. È inutile nascondersi dietro il politicamente corretto oppure non raccontarsi. Certamente la situazione sta cambiando perché si stanno abbattendo le barriere architettoniche, mentre quelle culturali e i tanti tabù che ci sono, soprattutto per le persone con disabilità, sono ancora tantissimi”.
Proprio per questo hai deciso di aprire il blog e il gruppo Facebook “Amore, disabilità e tabù: parliamone!”. Come nascono e che tipi di riscontri ricevi?
“Il blog l’ho aperto all’università un po’ per caso, è stata la soluzione immediata per farmi leggere da amici e professori. Ad oggi è cambiato e lo aggiorno continuamente. Invece il gruppo Facebook è nato con l’intento di aiutare le persone con disabilità e i loro familiari a gestire questo aspetto, che è negato e sofferto ma non è un tabù. Sui social e sul blog spesso mi vengono chiesti consigli sul percorso scolastico, sulla vita sentimentale e sulla sessualità. Su quest’ultimo aspetto spesso vengo contattata dalle mamme, sofferenti e anche intimorite, perché non sanno come affrontare le pulsioni del figlio”.
Cosa consigli solitamente a queste persone o direttamente alle mamme?
“Consiglio di utilizzare i forum di incontri per le persone con disabilità, attraverso i quali ho avuto delle esperienze oppure il massaggio tantrico”.
Cosa ne pensi dell’assistente sessuale e perché in Italia questa figura è ancora assente?
“Mi ha fatto piacere che mi abbia fatto questa domanda. Credo che il progetto che porta avanti Maximiliano Ulivieri con l’associazione Lovegiver sia importante, però in Italia non è mai passata la Legge, peraltro proposta due volte, che è tuttora ferma in Parlamento. Questo mi fa pensare che siamo ipocriti e arretrati rispetto agli altri Paesi europei, dove questa figura è una realtà vera e propria”.
Hai scritto e pubblicato ben due libri, qual è il tuo prossimo obiettivo?
“Al momento sono contenta di quello che faccio, anche se mi auguro di fare un webinar sul gruppo Facebook, con uno psico-sessuologo perché mi piacerebbe attivare un servizio di consulenza”.
C’è un messaggio che vuoi lasciare ai lettori?
“La vita va vissuta pienamente e fino in fondo, bisogna saper accettare la diversità, gli stereotipi e le idee di una persona andando oltre l’apparenza”.
(Lucia Romani)
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