Nonostante si parli molto di come l’Italia dovrebbe affrontare il fenomeno dell’immigrazione, poco si sa di come venga effettivamente gestito. L’occasione per rimediare ce la dà Monica, che quotidianamente lavora con i migranti
Di immigrazione e accoglienza si parla quotidianamente. Il tema è al centro del dibattito politico e dei salotti televisivi, nonché argomento privilegiato delle chiacchiere da social network. La questione è trattata il più delle volte con toni allarmistici, che aumentano una percezione di emergenza in buona parte smentita dalle statistiche. Ma soprattuto viene affrontata in maniera superficiale. In questa sede tentiamo di contribuire ad una conoscenza del fenomeno più completa, intervistando una figura professionale a diretto contatto con i profughi che arrivano in Italia.
Monica è laureata in Lingue Orientali, amante dell’Oriente, dell’arte e dei viaggi. Ha un passato lavorativo piuttosto vario, affine agli studi fatti e agli interessi maturati nel corso del tempo. Da qualche anno lavora come insegnante di italiano per richiedenti asilo e rifugiati in una piccola cittadina del Lazio, anche se le prime esperienze in questo settore risalgono a prima, in veste di tirocinante e poi volontaria, con bambini stranieri.
“Insegno italiano a richiedenti asilo e rifugiati – ci racconta Monica -. Lavoro in due associazioni, una è un Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria) e una è uno Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati)”.
Come funzionano queste strutture?
“Il Cas si occupa di prima accoglienza ed emergenza; lo Sprar è lo step successivo, quando i ragazzi sono già un po’ inseriti nella società e cercano un aiuto per diventare lavoratori e autonomi.
Il programma Sprar (ora chiamato ‘Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati’), che è gestito da enti su affidamento dei Comuni, è incentrato su un’accoglienza integrata, attraverso l’inclusione sociale, scolastica, lavorativa e culturale. Ora possono accedere a questo progetto solo coloro che hanno già ottenuto un esito positivo alla domanda di asilo (quindi status di rifugiato o protezione sussidiaria) o minori non accompagnati. Il problema sussiste per chi ha ottenuto la protezione umanitaria prima del decreto Salvini, che non può più entrare in un programma Sprar. Il programma ha una durata di sei mesi prorogabile per altri sei mesi.
Dopo il decreto le cose sono un po’ cambiate, a partire dai nomi. Il Cas è un progetto straordinario, su affidamento delle prefetture, emerso durante un periodo di grossi afflussi, in cui non c’era la possibilità di accogliere tutti tramite il sistema ordinario. Tuttavia adesso è diventata una forma ordinaria con cui inserire i richiedenti asilo, e se all’inizio era un sistema di prima accoglienza, con il tempo è diventato molto simile allo Sprar, per quanto riguarda i servizi offerti. Nei Cas ogni persona ha un tempo di permanenza relativo all’attesa della risposta alla richiesta di asilo”.
Da quali paesi provengono le persone che afferiscono a questi centri e perché?
“Per quanto mi riguarda, in questi anni ho conosciuto molti gambiani, nigeriani e maliani; ma anche afghani e curdi, soprattutto negli ultimi tempi. In misura minore pakistani, ivoriani e guineani. I motivi possono essere i più disparati: guerra, problemi geopolitici e culturali, minoranze religiose, problemi economici e persecuzioni di ogni tipo”.
Alcuni ritengono che molte volte queste motivazioni siano solo pretestuose. Vi risulta?
“C’è una commissione che ascolta, giudica e rilascia una risposta affermativa o negativa a riguardo. Il mio lavoro è quello di renderli più autonomi possibili nell’uso della lingua e non capire se le loro motivazioni siano pretestuose o meno. Per quanto mi riguarda migrare è un diritto di tutti”.
Quali attività vengono portate avanti in un centro d’accoglienza? Quanto tempo vi passano mediamente gli ospiti?
“Dipende. In un Cas l’attesa è varia, poiché il beneficiario è un richiedente asilo, quindi bisogna aspettare che venga chiamato dalla commissione territoriale e, successivamente, l’esito. Alcune persone in sette mesi complessivi hanno una risposta, altri sono in attesa da due o tre anni, poiché dopo un primo esito negativo hanno potuto fare ricorso, ma i tempi sono variabili. In uno Sprar possono rimanere per un periodo determinato di sei mesi o al massimo dodici (in casi particolari).
In entrambi i progetti in cui lavoro, i ragazzi vivono in appartamenti, quindi cucinano e puliscono autonomamente, devono seguire i corsi di italiano del progetto e del CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti), i corsi di formazione e attività ricreative”.
Ti sei fatta un’idea di cosa si aspettano queste persone arrivando in Italia?
“Certo, vogliono una vita migliore, un lavoro e una famiglia e la maggior parte non vuole restare in Italia. Hanno alle spalle viaggi durati anni, disavventure, torture, guerre, abbandoni e hanno bisogno di pace e serenità. Ci sono molte aspettative, che con il tempo si affievoliscono, poiché l’attesa per un documento è lunga e spesso non riescono a trovare un ‘vero’ lavoro. Inoltre quasi tutti hanno le famiglie nei paesi di origine e il non poterle aiutare grava sul loro stato emotivo”.
A proposito di emozioni, un impiego che ti mette a contatto con tanta umanità non ti avrà di certo lasciata indifferente.
“È un mondo estremamente affascinante per me che sono attratta dall’uomo e dai suoi molteplici aspetti e umanamente è un lavoro che mi dà e mi prende tantissimo. A volte l’aiuto viene frainteso, a volte le culture si scontrano e c’è sempre una linea d’affetto. Passo più tempo con i miei studenti che con la mia famiglia e anche quando non lavoro, penso a quello che devo fare con loro. Sono un po’ come bambini per me e questo coinvolgimento inevitabile (pur mantenendo un certo distacco a fine lavoro), mi fa pensare un po’.
Quello dell’insegnante è un ruolo ambivalente, spesso mi ritrovo ad ascoltare i ragazzi che mi raccontano le loro storie spontaneamente, a giocare con loro, a creare, a cucinare, a ridere, a imparare lingue nuove. È tutto un costruire rapporti, uno scambio continuo e non c’è cosa più bella e più impegnativa. Oggi, per esempio, un ragazzo mi ha invitato ad andare a mangiare a casa sua insieme ad altri suoi amici perché domani partirà per andare a vivere in Spagna con i suoi parenti. Abbiamo mangiato cibo maliano e chiacchierato come una famiglia. A volte mi sembra proprio di vivere in una grande famiglia”.
Oltre alle indubbie soddisfazioni, incontrerai anche delle difficoltà.
“Sicuramente non è un lavoro facile. Mi è capitato alcune volte di avere a che fare con personaggi psicologicamente problematici, con alcolisti, con deficit mentali, ma molto più spesso con ragazzi volenterosi, che vogliono imparare e inserirsi, educati, spesso non scolarizzati, ma propositivi. Abbiamo cucinato insieme, disegnato, creato aquiloni, oggetti vari e organizzato feste e gite. Poi la mia è una piccola città, in cui sono tornata a distanza di anni e praticamente conosco e saluto solo loro e a volte la mia elasticità mentale confonde un po’ autoctoni e non. Ma il mio ruolo è anche quello di educarli, di fargli capire che le culture sono diverse e che le persone sono uguali, che non sono tutti razzisti e che fare una passeggiata con una ragazza bianca, non significa che la ragazza è una facile. I preconcetti sono molti da entrambi i lati.
Tanti hanno davvero dei limiti dettati da una mancanza di conoscenze e una carenza di cultura generale, che spaventa. Con quelli più scolarizzati e capaci invece, ci addentriamo spesso in confronti religiosi e filosofici… Sono meravigliosi!
Se prima c’era il sentore di una certa ghettizzazione, ora avverto una maggiore integrazione, anche se il processo è molto lento, soprattutto in piccole città come la mia. Spesso anche tra loro non scorre buon sangue, tra diverse etnie, tra paesi africani o tra paesi asiatici e africani per differenze di cultura e abitudini, per diverse religioni e modi di fare. Alcuni sono più invadenti, molesti e rumorosi, perché hanno un modo naturale di alzare la voce e aggredire, ma senza l’intenzione, altri sono più educati e silenziosi”.
Al termine del periodo di permanenza in centri come quelli in cui lavori, che fine fanno i migranti?
“Molti vanno all’estero, alcuni mantengono i rapporti di lavoro iniziati durante il progetto e in caso di bisogno il nostro resta un punto di riferimento, soprattutto in questo momento in cui le Leggi sono cambiate ed hanno bisogno di maggior aiuto nelle questioni burocratiche”.
Articolo di Manuel Tartaglia