L’enciclopedia online Treccani definisce il razzismo come una “concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze”. Questa parola viene spesso legata alla figura di Hitler e ai campi di concentramento. Eppure possiamo ritrovare il modello di razza biologica già nella Prima Guerra Mondiale, e Antonio Gibelli ne parla approfonditamente nel libro La grande guerra degli italiani. Tra il 1914 ed il 1918, molte donne divennero oggetto di violenze e stupri da parte degli eserciti invasori, i cui episodi diedero alla luce i figli del nemico. Non passò molto tempo dalla diffusione di dibattiti sull’aborto e sull’infanticidio, in quanto il frutto di uno sbaglio, per metà di un’altra razza, rappresentava un nemico del paese. O ancora, si potrebbe mettere in campo il genocidio armeno, giustificato pubblicamente dall’impero ottomano come una guerra contro traditori e spie.
Il razzismo è sempre più al centro delle cronache attuali. Tra chi invoca le chiusure delle frontiere, chi posiziona comparti militari ai confini della nazione e politici estremisti che condannano ogni singolo comportamento di un immigrato come culturale, l’odio diventa una minaccia della coabitazione sociale. Per alcuni, però, non si tratterebbe di essere razzisti, bensì di difendere la propria casa. Cacciare chi non è cittadino di un determinato paese non è intolleranza, ma semplice giustizia.
Dunque il razzismo non esiste? Secondo una ricerca pubblicata dal Pew research center – e rilanciata da Mauro Munafò su l’Espresso -, l’Italia è uno dei paesi europei più razzisti quando si parla di rom, ebrei e musulmani. I risultati sono impietosi: su due dei tre grafici pubblicati, il Bel Paese guadagna il primo posto in fatto di ostilità razziale. La soluzione sta nella cultura, ovviamente. Ma il quadro si complica con un’altra indagine citata dal giornalista, la quale sottolinea l’alta ignoranza del popolo italiano su scala europea.
A questo punto, il libro di Warren St. Jonh – giornalista del New York Times -, Rifugiati Football Club, rappresenta l’emblema della speranza. L’opera di oltre 370 pagine narra le vicende di Luma Mufleh, donna giordana, che a Clarkstone (Georgia, USA), nel giugno 2004, crea i Fugees, una squadra di calcio con ragazzi provenienti da nazioni africane e mediorientali (Etiopia, Burundi, Afghanistan, Congo, Iraq, Liberia, Sudan, Somalia, Bosnia). Sono tutti giovani e giovanissimi scappati dall’orrore della guerra, dalle atrocità della povertà e della violenza, trapiantati insieme alle loro famiglie - o quel che ne resta - in una sconosciuta cittadina americana, destinata ad essere un centro all’accoglienza.
Warren ha passato ben 15 mesi a seguire i Fugees, ha visto l’evoluzione della squadra entrare in contrasto con i sentimenti di sfida dei cittadini di Clarkston, spesso raffigurati nei loro atteggiamenti discriminatori o in quell’odio che, giorno dopo giorno, cementificava stereotipi. Siamo di fronte ad un libro attualissimo - nonostante racconti avvenimenti accaduti circa 12 anni fa -, nel quale si alternano diversi ambiti: la politica, con diverse figure istituzionali decise a non difendere pubblicamente i Fugees per non incappare nella disapprovazione dei concittadini, arrivando il più delle volte a non concedere nulla alla squadra (campo per l’allenamento, pulmino per le trasferte, divise, scarpe e via discorrendo); lo sport, la chiave della salvezza, che dovrà fare i conti con le ostilità sul campo degli avversari; l’integrazione sociale, negata e maltrattata, emarginata e dimenticata. In tutto questo, sono tante le testimonianze di bambini e genitori che, con disarmante naturalità, raccontano i drammi dei conflitti armati, gli orrori incontrati durante le fughe insperate, le lunghe attese burocratiche senza risposta, la paura di morire e la fiducia persa nel genere umano.
La vera sfida di Luma sarà cementificare l’idea dell’inclusione sociale, grazie ad una piccola squadra che, giorno dopo giorno, accoglierà nuove leve. Lo sport diventa il messaggio, un modello da seguire, un calciatore che tenta di vincere la partita contro la diversificazione razziale. “Mi comporterò bene in campo e fuori. Non fumerò. Non mi drogherò. Non berrò alcol. Non metterò incinta nessuna. Non dirò parolacce. I miei capelli saranno più corti di quelli dell’allenatore. Sarò sempre in orario. Ascolterò l’allenatore. Mi impegnerò al massimo. Chiederò aiuto. Voglio far parte dei Fugees”. Queste sono le regole dei Fugees, il simbolo dell’integrazione e della globalizzazione, risultati naturali, mete significative per il principio della coabitazione. Rifugiati Football Club mostra quanto il razzismo sia solo un terribile errore.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante