Un’acca, apparentemente muta, ma spesso espressione di alcune culture o categorie sociali. Ad esempio, quand’è doppia, indica quell’insieme artistico e culturale, che racchiude l’espressione più diffusa della comunità afroamericana negli ultimi decenni, definito Hip Hop. Un movimento culturale che nasce e si evolve a New York, intorno agli anni ‘70/’80, per le strade della città. La Sedgwick Avenue, al cui civico 1520 si attribuisce la fama di luogo storicamente fondamentale per la nascita della cultura Hip Hop, ora è “Hip Hop Boulevard” a riconoscimento di come la ‘doppia acca’ abbia saputo imporsi col tempo – attraverso le sue quattro arti principali – nel mercato discografico, cinematografico, editoriale e dell’abbigliamento. “È una cultura che è arrivata dalla strada, una cultura nata negli Stati Uniti, per aiutare la gente ad evitare problemi”, Little Phil – affermato ballerino, la sua creatività e le sue performance esplosive lo hanno portato ad essere riconosciuto come uno dei più grandi talenti dell’ Hip Hop moderno a livello mondiale – sintetizza con parole forti un’esigenza sociale e politica di base che ha portato alla diffusione capillare di questa filosofia di vita. La necessità di farsi valere, di accettarsi, di riconoscersi in un’identità che altrimenti sarebbe troppo confusa e sommaria. Quell’acca viene usata frequentemente, troppo spesso (ahinoi) per definire anche una diversità: infatti, nonostante la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità abbia posto l’accento sul fatto che (anche nella terminologia) manca una definizione chiara del concetto di disabilità, si parla banalmente di handicap. Senza porre attenzione alla persona in sé, ma semplicemente facendo riferimento alla sua condizione. Per questo “people with disabilities” è – o perlomeno dovrebbe essere – un primo passo verso quell’accettazione collettiva a cui bisogna tendere.
Un proposito che si attua facilmente quando si tratta di apporre definizioni su carta, assai più arduo diventa fare i conti col proprio essere nella quotidianità: molti, troppi ragazzi, si sentono schiacciati quando vedono le proprie differenze emergere ed è un peso che non è sempre facile da sopportare. In questo, può arrivare in aiuto quell’acca che, quando raddoppia, avvicina le coscienze. Ce lo insegna Tyrone Nigretti, un ragazzo di ventuno anni costretto sulla sedia a rotelle sin dalla nascita che ha deciso di raccontare la sua vita in un libro: “Fattore H, slalom di un disabile nella nostra società” edito da Rizzoli. Si tratta di pagine scritte di getto che raccontano come questo ragazzo, affetto da tetraparesi spastica, abbia dovuto far fronte a numerose difficoltà, subito dopo esser rimasto orfano di madre e padre all’età di sedici anni, in seguito a problemi d’alcol e droga. Ritrovarsi a vivere da solo con una patologia è già molto difficile, figuriamoci dover fare i conti col pregiudizio della gente. Tyrone racconta un mondo fatto di finti perbenisti che “mi fissavano come se fosse un fenomeno da baraccone, un alieno da analizzare e, per qualcuno, addirittura da evitare”. Proprio facendo fede alle parole di Little Phil, questo ragazzo ha scelto l’Hip Hop e il Rap per far fronte ai suoi problemi: “Volevo attribuire un nuovo termine alla disabilità, un vocabolo che non fosse nutrito di pregiudizi. Un termine che facesse sentire figa la persona portatrice, libera da ogni preconcetto, e che racchiudesse in sé sia l’handicap che l’Hip Hop, da qui nasce Fattore H”. C’è spazio, poi, anche per altri riferimenti all’interno del libro: “Il significato che volevo evidenziare era quello psicologico: la resilienza è la capacità che ha la mente umana di far fronte agli eventi spiacevoli della vita, trasformandoli in qualcosa di positivo e riuscendo persino a uscire rinforzati dai traumi subiti. Purtroppo ora, negli ultimi cinque anni, forse qualcuno in meno, il Rap sta rischiando di diventare soltanto una moda, perdendo il significato che aveva in origine, come forma di protesta, ma soprattutto di rivalsa. Una rivalsa positiva, costruttiva, non distruttiva”.
L’intenzione di far avvicinare l’Hip Hop alla disabilità non è solo un auspicio di un ragazzo pieno d’estro e fantasia, come sottolinea il giornalista Marco Locci: “La voglia di rinnovarsi e di trovare qualcosa che possa essere d’aiuto per le persone con disabilità porta sempre a fare studi di alti livelli o a cercare di migliorare quelli precedenti, cercando di avere dei risultati empirici che permettano di dare valore al lavoro fatto. La ricerca di qualcosa di nuovo prende in considerazione la vita di tutti i giorni, guardando come si sviluppa la società e che direzione sta prendendo. Se non si vive in mezzo alla gente, faccia a faccia con le difficoltà che si possono riscontrare, queste ricerche hanno però poca valenza pratica, in quanto esclusivamente teorica. Ascoltando i discorsi delle persone al bar davanti al caffè o che per strada passeggiano tra i negozi, si può dire che la musica e lo sport sono due punti solidi, argomenti di conversazione continui che fanno riflettere chiunque, perché in qualche modo entrambi ci rappresentano. In questo periodo di forte crisi dobbiamo abituarci a trovare tutte le soluzioni a costo zero, nel caso delle persone disabili spetta a chi lavora nei vari settori sociali trovare quelle sempre più fresche e nuove. La musica è uno strumento molto forte che ha sempre dato dei risultati importanti, basti pensare che è stata creata una materia come la musicoterapia. L’idea potrebbe essere quella di usare il Rap anche per raccontare la società alle persone con disabilità, per permettere di avvicinarle ai cosiddetti “normodotati”, un termine che non mi piace usare ma che viene spesso utilizzato”.
Insomma, più che “una soluzione a costo zero”, l’Hip Hop è sicuramente una valvola di sfogo e una forma d’espressione che, senza dubbio, disciplina e indirizza quel vortice di emozioni che tanti ragazzi hanno dentro. Forse, anzi certamente, è per questo motivo che tale cultura è partita a stelle e strisce per ritrovarsi e riscoprirsi cosmopolita. Infatti, non è un caso se persino i profughi diventano rappers e mettono in musica i drammi vissuti per affrontare il viaggio della speranza per arrivare in Italia: i due artisti si chiamano Balde Bassi e Culibaly Makamba, rispettivamente dal Senegal e dal Mali, attualmente ospiti in un centro di accoglienza a Firenze della cooperativa Il Cenacolo, dove sono arrivati alcuni mesi fa. Insieme hanno trovato così un modo, quello di musicare il terribile viaggio, per esorcizzare le paure attraversate e i drammi vissuti sulla propria pelle. “Un viaggio – spiegano – che si può affrontare solo grazie al coraggio dato dal ricordo e dalle promesse fatte a chi si è lasciato a casa”. Attraverso le quattro arti dell’Hip Hop può rinascere la speranza, può nutrire una consapevolezza, può emergere serenità. Con un beat, con un passo, con una tag piuttosto che un piatto, possiamo arrivare a ritrovare la nostra vera natura. Questione di passione, di talento, di volontà o – più semplicemente – questione di acca.
Articolo di Andrea Desideri