“Alla fine l’unica cosa seria in Italia è la ristorazione”, qualche anno fa Elio e le Storie Tese ammettevano attraverso un ritornello quanto la buona cucina, nel nostro Paese, sia l’ultimo baluardo di legalità. Forse avevano ragione, forse no. A smentire un famosa canzone e la certezza italica ci pensa l’Eurispes – l’istituto di Ricerca degli italiani: “L’Italia è il paese della buona tavola, del cibo di qualità, di prodotti unici al mondo. Buona parte del merito di questa unicità è rappresentato dal settore agroalimentare, da sempre fiore all’occhiello del Made in Italy che però non riesce a scrollarsi di dosso le vesti di Cenerentola. Oltre alla crisi, a rendere ancora più complicato negli ultimi anni lo sviluppo di questo settore vitale per l’economia del nostro Paese, anche l’appetito delle mafie. Camorra, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta sono state ancora una volta capaci di anticipare i tempi e ormai da anni hanno messo le mani su un business, quello dell’agroalimentare”. Queste affermazioni, che lasciano poco spazio a fraintendimenti, sono avvalorate dalle cifre esorbitanti che gli affari agroalimentari porterebbero nelle casse criminali: quattordici milioni di euro l’anno, sette dei quali provenienti solo dalla produzione agricola. Un campanello d’allarme che ormai risuona in modo sempre più acuto persino nelle statistiche: il settore agroalimentare ricopre il 16% dell’intera torta che compone il business della contraffazione italica, ciò vuol dire che la criminalità organizzata non solo trova terreno fertile, ma lo sfrutta fino all’osso a tal punto da ricavarci una percentuale netta, nitida. Ogni anno.
I centri nevralgici del malaffare alimentare sono, come era presumibile, al sud: dove troviamo campi, terreni e soprattutto gente che lavora. Molto spesso straniera, che non sa, oppure fa finta di non sapere, pur di poter lavorare in cambio di pochi spiccioli: “Lavorano dodici ore al giorno sotto il sole. Fino a morire di fatica. Accampati in tendopoli o stipati in ghetti fatiscenti. Ai margini dei campi dove vengono prodotte le primizie Made in Italy. Senza regole, senza leggi. Dove l’unica parola che conta è quella del caporale. Una pratica che mette in moto due business: le agromafie e la gestione del mercato della braccia” (L’Espresso). Lo sfruttamento alimentare è strettamente legato ad un altro fenomeno criminoso: la tratta degli esseri umani, molto spesso, anzi quasi sempre, lavoratori stagionali che vivono in situazioni di precarietà. Stranieri, parecchi, ma anche qualche italiano. Sottopagati, sfruttati e sopraffatti dalla povertà. Uomini, donne, perlopiù anziani, trattati come bestie che si dedicano all’acinellatura dell’uva, alla raccolta di pomodori, alla vendemmia e ad altre attività senza sosta. Fino a cadere stroncati dalla fatica, come è successo a Paola Di Clemente – 49enne di San Giorgio Jonico – per due euro l’ora. La mappa dello schiavismo non annovera soltanto la Puglia, c’è anche la Sicilia dove le donne che lavorano nei campi e nelle serre del ragusano vengono abitualmente violentate nel totale isolamento: “Possono prendere il mio corpo. Possono farmi tutto. Ma l’anima no. Quella non possono toccarmela” (Alina, 27 anni, L’Espresso). Senza contare, poi, l’ingente manodopera utilizzata dal Monferrato all’Agropontino per produrre vini e spumanti doc: tredicimila indiani a quattrocento euro mensili per lucrare successivamente sull’esportazione del prodotto enologico.
Nel nostro Paese le “braccia” a servizio della malavita aumentano ogni anno (40mila lavoratori in più rispetto allo scorso) e le caratteristiche di sfruttamento sono uguali per tutti, almeno in questo c’è equità e pari trattamento: nessun contratto, un salario tra i 22 e i 30 euro al giorno (inferiore del 50 per cento rispetto a quelli ufficiali) e poi tantissimo lavoro a cottimo. Il tutto basato su violenza, ricatti, abusi (come la sottrazione dei documenti): “Sono arrivato in Italia nel 2009 dopo una tappa in Francia», racconta Francis (il nome è di fantasia): «Finisco a Foggia per la raccolta del pomodoro. Dopo un anno da bracciante, un caporale mi propone di aiutarlo, io ho la patente e lui no. Ha paura di imbattersi nella polizia e il sequestro del furgone per questo io gli posso servire” (L’Espresso).
Si evince che dietro questo business, come fossimo al cospetto di un “galateo” da osservare, ci sono molte regole e qualche ruolo fondamentale: il ‘tassista’ che si limita a gestire il trasporto di merci, il ‘venditore’ che ha il compito di organizzare le squadre di braccianti e imporre la vendita dei beni primari, infine troviamo ‘l’aguzzino’ che impone sistematicamente violenza, ricatti e abusi ai lavoranti causando il clima necessario alla formazione di una cattività che porta a condizioni coercitive e situazioni di vita indegne. Questa triade è capeggiata da un italiano, che sta quasi sempre al vertice del sistema, giusto per tener fede al concetto Made in Italy: “I caporali italiani – insieme al loro boss – possono imporre le loro regole anche agli imprenditori, ma quelli stranieri devono sempre aspettare l’ingaggio da parte delle aziende. Non sono in grado di imporre i loro braccianti. Questa è la differenza, in termini di potere e di intimidazione, tra gli uni e gli altri. E se gli stranieri, non rispettano ciò che gli italiani gli dicono di fare diventa molto difficile anche per loro operare in questo settore. Il caporale italiano guadagna molto di più di quello straniero, poiché è in grado di negoziare con l’imprenditore il prezzo della raccolta e al contempo pagherà i braccianti di meno. Chi sta al vertice di questo sistema può arrivare a guadagnare anche 200 mila euro al mese. E non è un’esagerazione. E i suoi aiutanti altri 70mila. Chi li può fermare?” (bracciante anonimo, l’Espresso).
GIUSEPPE ANTOCI: LA SPERANZA, L’ESEMPIO – In questo puzzle intricato tra sfruttamento e violenze di vario genere, la figura di Giuseppe Antoci emerge per senso civico ed onestà. Qualità che dovrebbero risultare consuete, ma non sembrano esser così scontate. Il presidente di Parco dei Nebrodi è stato vittima di un attentato malavitoso (dal quale è uscito illeso grazie alla sua scorta) per aver firmato i protocolli di legalità messi in atto per sottrarre pascoli alla mafia e debellare così il gigantesco giro d’interessi legati ai fondi europei per l’agricoltura. Uno dei tanti, ancora troppo pochi, purtroppo, che prova a fermare il crimine organizzato con la sola forza di una firma per arrivare a rendere indigesto un piatto sinora troppo ricco, in cui mangiano in parecchi avendo a disposizione mezzi e possibilità.
Articolo di Andrea Desideri