Steve McCurry, fotografo di fama internazionale, deve gran parte del suo successo professionale a Sharbat Gula, l’orfana dodicenne che ha incontrato nel lontano 1985 in un campo profughi di Peshawar ai tempi dell’invasione russa. Quegli occhi profondi, spalancati verso un futuro che in certi luoghi potrebbe essere un privilegio più che in altri, sono divenuti simbolo di una sofferenza che attanaglia le donne afghane. Sullo sfondo, il silenzio-assenso della maggioranza dei media. Infatti, agli inizi del Duemila, McCurry tornò a Nasir Bagh – in Pakistan – dov’era stata scattata la foto e ritrovando Sharbat (ormai madre di famiglia) si rese conto che la situazione non era cambiata: lì moltissime donne, nascoste dal burqua, valgono poco più di un oggetto e sono sottomesse alle scelleratezze della collettività. Fino al 1994, anno in cui i talebani presero il potere, ogni donna si poteva realizzare esercitando qualunque professione: medico, infermiera, ingegnere. Qualsiasi cosa le facesse sentire all’altezza, permettesse loro di emanciparsi, all’interno dello status quo.
Da oltre vent’anni, invece, la coercizione degli uomini imperversa sia territorialmente che legalmente: dietro i loro burqua, mogli e sorelle si sentono sopraffare costantemente. Ogni ragazza passa le giornate in casa, sotto l’asfissiante controllo del proprio uomo (sia esso marito o fratello), al minimo accenno di reazione viene picchiata e fustigata pubblicamente. Senza vergogna o limiti. A nasconderne il volto non è solo l’abito o la tumefazione dei lividi, ma anche e soprattutto i vetri scuri delle abitazioni che somigliano sempre più a delle prigioni. Tale chiusura, non soltanto mentale, è avvalorata dal Corano che recita: “Le vostre donne sono come un seme da coltivare e quindi potete farne quello che volete”. Quindi, secondo l’interpretazione più conservatrice e cinica del fondamentalismo islamico, essere donna in Afghanistan è utile soltanto per dare seguito alla specie: un mezzo atto alla riproduzione e alla soddisfazione dei bisogni sessuali maschili. Sahar, Mumtaz, Qamar, Sima, Aziza, sono solo alcune delle tante ragazze vittime di crimini impuniti nell’ultimo anno. Torture che vanno dall’impiccagione allo stupro (che viene, poi, mutato in adulterio e quindi scatta l’ulteriore accanimento); dallo sfregio con l’acido al rogo in pubblica piazza. Costrette a queste insostenibili condizioni di vita, molte donne si lasciano morire, altre scelgono consapevolmente di togliersi la vita, oppure si spengono lentamente per mancanza di cure mediche, altre rimangono afflitte da evidenti problemi psichici.
I talebani, nonostante considerino illegale tenere in gabbia uccelli e animali, nascondono le loro donne per poi mostrarle in seguito ad umiliazioni. L’approccio dottrinale (figlio di un culto distorto volutamente per giustificare determinate azioni), inoltre, ha un ruolo preponderante in quest’escalation della barbarie: alcuni fondamentalisti Jehadi come Gulbbudin Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Sayyaf, Khalili, Akbari, Mazari e i loro criminali Dostum hanno commesso i peggiori crimini contro le donne afghane. Questa situazione paradossale viene combattuta da associazioni umanitarie e non solo, un apporto fondamentale prova a darlo Maria Bashir – procuratore capo di Herat – da sempre in prima linea, pronta a fronteggiare il potere talebano che quasi ogni giorno le rivolge pesanti minacce di morte: “La sicurezza della popolazione è debole con un esercito non ancora ben addestrato. Non siamo ancora in grado di camminare da soli sulle nostre gambe. La vita sociale è compromessa dalle violenze familiari. Non è per niente facile. I talebani attaccano le scuole femminili e distruggono tutto. L’analfabetismo diffuso fra le donne è il male maggiore per il Paese che ancora oggi non trova un buon candidato politico in favore di donne e bambine”.
Articolo di Andrea Desideri