I cani, i gatti, ma non solo, possono essere qualcosa di più che semplici animali da compagnia, come ci spiega Michela Pugliese, medico veterinario e ricercatrice presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Messina.
La nostra intervistata vive la sua professionalità – come lei stessa dice – con vena romantica perché gli animali sono pazienti ma soprattutto fonte di benessere. La dottoressa Michela Pugliese si occupa di gestire il progetto Pet-Therapy all’interno dell’Ateneo Messinese e si è resa disponibile a raccontarci metodi, riscontri e dati raccolti negli anni di ricerca.
La Pet-Therapy, conosciuta anche come “zooterapia”, si basa sull’interazione uomo-animale, e integra e coadiuva le terapie tradizionali. Questo metodo affronta diverse patologie, che siano di carattere comportamentale o fisico o psichico-sociale oppure ancora psicologico-emotivo; dove gli animali coinvolti possono essere cavalli, asini, gatti e poi ancora delfini e conigli.
Quali professionisti si affiancano al medico veterinario nella Pet-Therapy?
“Il progetto di Pet-Therapy è un lavoro di equipe dove, oltre il medico veterinario, interagiscono professionisti come medici, psicologici o psicoterapeuti e anche il cosiddetto Pet-Therapy, colui che accompagna fisicamente l’animale durante la seduta e che media tra il paziente e l’animale stesso”.
Attualmente questa terapia ha dei riscontri da parte dei pazienti? O è ancora poco conosciuta, quindi considerata di minor rilievo rispetto ad altri metodi?
“Sicuramente è una terapia giovane. Nasce con Levinson nel 1960, e inizialmente si sviluppa negli Stati Uniti d’America, da circa un decennio è approdata in Italia. Ultimamente c’è una grande attenzione verso la Pet-Therapy, infatti sono state pubblicate anche delle linee-guida ministeriali, e inoltre sono stati avviati numerosi centri privati, e non solo. All’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, è stato inserito il programma che permette un approccio costante con l’animale all’interno della struttura sanitaria stessa”.
Quali sono i metodi e gli obiettivi della Pet-Therapy nel caso di disabilità neuromotoria e comportamentale?
“Metodi e obiettivi mutano a seconda del soggetto. Sulla base del lavoro svolto presso il nostro Centro posso dire che per soggetti con disabilità neuromotoria o comportamentale, già a distanza di sei mesi dall’inizio della terapia, è stato possibile registrare un miglioramento della coordinazione motoria e un potenziamento dell’acquisizione dello schema corporeo”.
Il progetto Pet-Therapy all’Università degli studi di Messina cosa propone? E quali difficoltà ha causato la messa in pausa del progetto?
“Proponiamo ai pazienti una terapia dolce che si basa su un approccio multidisciplinare supportato da solide basi scientifiche attraverso collaboratori del settore. Il nostro Centro continua ad essere presente ma poiché legato ai tanti problemi della pubblica amministrazione ha subìto delle fasi non costanti, ma comunque fornisce una solida formazione agli specialisti del settore, e ultimamente c’è un rapporto di convenzione con delle associazioni del settore con lo scopo di riattivare l’attività”.
Sta lavorando a qualche pubblicazione relativa all’argomento disabilità e Pet-Therapy?
“Sì, io e il mio gruppo di lavoro stiamo cercando di capire e stabilire se questo modo di fare terapia possa causare stress o insoddisfazione agli animali. Personalmente credo in una sorta di Pet-Therapy inversa, in base ai dati raccolti mi sento di poter di dire che l’animale non si stressa ma anzi trae giovamento”.
Articolo di Roberta Latella