Veicolare la cultura accessibile, in tutti i sensi. Non solo a livello strutturale, ma anche in quello economico. Possiamo riassumere così la mission di PuntiDiVista, casa editrice di Rieti gestita unicamente da donne che, da diverso tempo, punta a creare prodotti inclusivi per bambini e ragazzi con disabilità. Attenzione, però: in questo caso, siamo di fronte a un’evoluzione di quanto siamo abituati a trovare. Un prodotto, infatti, può essere pensato per più necessità contemporaneamente. Per approfondire meglio tutto questo, ne abbiamo parlato con una delle protagoniste, Benedetta Bellucci.
Che cos’è PuntiDiVista?
«È una casa editrice nata da una situazione abbastanza comune in questo Paese, cioè dalla fine della realtà lavorativa in cui eravamo dipendenti in parecchi. Questa realtà si occupava di adattamento di testi per bambini e ragazzi ipovedenti e ciechi. Improvvisamente, abbiamo perso il lavoro in circa 70. Noi poi siamo di Rieti, una realtà ancora più complessa per potersi rimettere in gioco. E alcune di noi hanno ritenuto giusto e necessario non buttare all’aria l’esperienza di circa 10 anni nell’adattamento di questi testi. E quindi abbiamo creato all’inizio una cooperativa per continuare a fare questo lavoro, che ci ha dato la possibilità poi di conoscere altre realtà della disabilità legata alla mancanza di testi ludici. Non parliamo soltanto di testi scolastici, la cui assenza si fa sentire, ma ci siamo rese conto dell’assenza di libri per divertirsi, per leggere, per svagarsi per alcune forme di disabilità, o comunque ce n’era una presenza limitata con prezzi esagerati – mi riferisco a testi in braille che non fossero commissionati oppure che utilizzano la comunicazione aumentativa alternativa che, per i più, è quella che si usa con i bambini autistici. Da qui ci siamo costituite come casa editrice nel 2013 e abbiamo iniziato, studiando ovviamente questi codici linguistici alternativi, ed è nata la voglia di creare una forma di editoria accessibile ma inclusiva: significa che non vogliamo creare soltanto libri per la propria disabilità o per la propria esigenza, ma cerchiamo di creare, quand’è possibile, un unico prodotto che sia adatto per varie disabilità nello stesso momento».
Uno dei vostri ultimi prodotti riguarda Rivincita, un libro sullo sport paralimpico. Ci puoi raccontare la sua genesi? Ovviamente il momento è abbastanza caldo, visti i successi di personaggi come Bebe Vio, Alex Zanardi e Giusy Versace…
«Erano parecchi anni che c’era la volontà da parte nostra di creare un testo in cui parlare di sport e del fatto che lo sport sia spesso un canale per tornare a vivere o comunque di riprendersi di una normalità. Gli esempi che tu hai citato sono eclatanti: Zanardi era già uno sportivo, mentre Versace ha potuto riscoprire una parte di sé che non conosceva dedicandosi allo sport, ma ovviamente dopo un evento traumatico. Quindi questo argomento ci ha sempre molto interessato, ma non trovavamo una chiave di interpretazione che non fosse una mera trattazione di disabilità ed eventi traumatici che hanno poi condotto allo sport, senza dover per forza citare personaggi famosi che sono eccellenti ed eccezionali, ma che effettivamente hanno avuto negli ultimi tempi una visibilità – meritata e giusta – spesso non legata soltanto allo sport, ma anche ad alcune trasmissioni a cui hanno partecipato, o comunque più legata alla persona che allo sport. Noi volevamo invece creare un’altra attenzione, quella sullo sport e basta. Poi il fatto che questo meraviglioso elemento possa ridare speranza vita, o che cambi la prospettiva che noi abbiamo della nostra vita, mi sembrava più interessante. Poi ho trovato questa chiave, ma è stato per caso e quando ci sono state delle buone congiunzioni di pianeti. Ad ottobre, quando stavamo cercando di creare qualcosa di bello per questi bambini, abbiamo fatto una festa, “La festa del cielo”, dove sono arrivati in nostro aiuto gli amici dell’Aeronautica Militare, con cui avevamo già fatto un piccolo libro, molto carino. In quell’occasione, per raccontare l’emozione del volo ai bambini, è arrivato il tenente colonnello Marco Iannucci, che è diciamo colui che si è inventato questo gruppo paralimpico di difesa. Quindi nella conoscenza di Marco, nel sentire il racconto di un pilota sopravvissuto ad un incidente gravissimo, ho trovato finalmente la scintilla, la formula che volevo raccontare. Perché in effetti in “Rivincita” sono per lo più sconosciuti, persone che non sono mai state sotto i riflettori e che grazie allo sport hanno storie incredibili, sono riusciti a rimettersi in gioco e a ritrovare un equilibrio».
A mio avviso, è molto importante il modo in cui si può veicolare la cultura. Sul vostro sito, ho visto che avete dato il via a un cartone animato fruibile da diverse persone con altrettante disabilità. Oltre a chiederti com’è nato questo progetto, mi preme chiederti una cosa: ma quindi, si può fare una cosa di questo tipo?
«Dopo un anno e mezzo di lavoro, si può fare, come diceva il fantastico Frankestein Junior. È stato difficilissimo, perché poi in effetti nella meravigliosa cultura dei cartoni animati anni 80/90 non c’è mai stata un’attenzione particolare nei confronti di alcune forme di disabilità sensoriali e cognitive. Ma adesso men che meno, nonostante i numeri parlino di una presenza massiccia, per esempio, di bambini autistici in età scolare. Quindi, la domanda è stata “Come fa un bambino sordo che vuole vedere un cartone animato?”. Per il bambino cieco sappiamo che esistono delle forme palliative, come il famoso punto canale dedicato. Ma un bambino autistico ha ancora più necessità con cui dover relazionarsi. E a un certo punto la scommessa è stata “Facciamolo noi, creiamo qualcosa che abbia al suo interno la possibilità di dare un prodotto ludico a queste categorie”. La difficoltà è stata infinita anche perché, rivolgendoci a esperti del settore, uno annullava l’altro. Ti spiego: l’esperto di problemi di autismo diceva “No, non è possibile mettere tutti questi elementi come il baloon della LIS, che può dargli fastidio”. Ovviamente, noi abbiamo ascoltato tutte queste indicazioni e abbiamo cercato di creare qualcosa in cui prevedere l’imprevedibile. Di fatto abbiamo testato questo nostro prodotto con tantissimi bambini autistici e la loro attenzione è molto alta, quindi questo ci dà una buona speranza. Questo prodotto deve essere completato nella sua forma, quindi vedrà la luce ad ottobre quando lo presenteremo ufficialmente a Cinecittà. Di fatto son solo cinque episodi, perché le difficoltà sono state molteplici, sia di prevedere l’imprevedibile, sia di creare tutte le condizioni e tutte le necessità. Ma soprattutto è stato un progetto onerosissimo, per il quale non saremo neanche riuscite ad immaginarlo senza l’utilizzo del crowdfunding, che abbiamo fatto con TIM che, ogni tanto, organizza queste raccolte fondi withwedo, e ci hanno scelto tra più di 200 proposte nell’anno 2015. Da lì sono partiti sei mesi di estenuante mediaticità, anche perché dovevamo farci conoscere, cercare sponsor e donatori. La cifra era altissima, circa 50 mila euro, di cui tutti finalizzati alla produzione dell’animazione. Noi abbiamo fatto tanto lavoro di soggetti e sceneggiatura, in quanto questo era un progetto che già esisteva da un punto di vista editoriale, c’era una collana da cui è nato questo cartone. Per fortuna, attraverso tanta pubblicità e le persone che ci hanno creduto, abbiamo traguardato nel febbraio 2016. Questi cinque episodi ci sembrano perfetti, speriamo siano funzionali».
La cultura può essere trasmessa a tutti, dunque. Perché in Italia sembra più un ostacolo?
«L’ostacolo è sempre e soltanto mentale, di approccio. Pur essendo altissimi i numeri di bambini autistici in età scolare, bambini con disturbi dell’apprendimento, pur essendoci moltissimi bambini sordi, di fatto sembra che il problema sia sempre di pochi, di chi è obbligatoriamente costretto a lavorare (educatori) o a vivere (genitori) questi problemi. Finché questa sarà la mentalità, finché non ci renderemo conto che un bambino su tre ha un problema anche di apprendimento semplice, che va risolto legandosi al suo problema e non dandogli un testo generale che valga per tutti, non si supererà. Ma, a mio avviso, non c’è voglia, perché questo è un paese che non ha capacità di fare rete, non ha capacità di sentire un altro che ne possa sapere di più, magari provando a creare qualcosa del genere. Noi con il cartoon ci siamo riuscite, ma perché abbiamo trovato delle persone particolari, che non si sono messe lì a fare gli accademici, ma si sono messe dalla parte del bambino o in generale dalla parte della disabilità, e non si sono messe dalla parte di chi sta studiando o deve farne dei manuali. È tutto possibile, è tutto dovuto a queste persone che hanno il diritto di avere un approccio alla cultura che sia veramente dignitoso, perché quello che c’è in giro – e mi riferisco anche a una cultura ludica – è in una forma molto bassa e soprattutto costosissima – ancora devo trovare qualcuno che mi spieghi questa cosa. Quindi, andiamo anche ad aumentare un problema su un altro problema. Perché io devo essere costretta a comprare un libro in braille e pagarlo 90 euro? E siccome ho una stampante braille, so quali sono effettivamente i costi: è vero che una stampante di questo tipo costa molto, e che c’è la necessità di ammortizzare un costo iniziale, poi però non si può far pagare 90 euro un libro in braille. Non si può parlare di accessibilità e inclusione se non si prescinde dal fatto che ci sono anche delle necessità logistiche ed economiche da rispettare. Il limite è una mancanza di interesse e di tipo mentale che non ci fanno comprendere il problema da vicino. Per questo noi andiamo nelle scuole a raccontare ai bambini che cosa sono le disabilità, li facciamo giocare con l’assenza dei vari sensi per far capire loro cosa significa, come ci si deve anche comportare in un contesto del genere. E ci siamo resi conto che, per ogni classe, c’è almeno un bambino che ha problemi molto seri».
Oltre alla sensibilizzazione nelle scuole, avete già altre idee per prodotti futuri?
«Adesso abbiamo approcciato da poco anche ad un altro aspetto, cioè i libri tattili, a cui non abbiamo dato spazio prima per motivi puramente logistici. Ci siamo resi conto di quanto per un bambino piccolo sia necessario un approccio che non può solamente limitarsi a toccare il braille, ma deve essere necessario anche un approccio tattile all’elemento. E quindi questa è stata l’ultima sfida impegnativissima, ma di grande soddisfazione. Però la difficoltà per noi risiede nel fatto che essendo piccole e poche, dobbiamo fare tutti i nostri libri a mano: abbiamo scelto di fare tutti i nostri libri a mano, a parte quelli che hanno una rilegatura canonica. Perché di fatto, quando abbiamo approcciato a questo tipo di disabilità, c’è stato detto che c’erano delle necessità logistiche di creare libri resistenti, che fossero duraturi e che si potessero sbattere per terra e non rompersi. Il cartonato in Italia lo fanno in tantissimi, ma nella maggior parte dei casi vengono dalla Cina in quanto richiedono un sacco di lavoro e, per le grandi tirature, si fa prima, è più economico. Ci siamo formate e dotate di piccoli macchinari per fare questo, quindi la sfida è doppia. Non solo creare un libro da zero, ma poi fare la parte tattile e la rilegatura. Personalmente, questo è quello che mi dà più soddisfazione. Questa è la sfida del presente, per quanto riguarda quella del futuro penso più lo sviluppo tecnologico, la creazione di app o di video che ci consentano di sfruttare alcune risorse di oggi (come i tablet), che potranno aiutare nell’approccio scolare e non molte disabilità, che faticano di più con il cartaceo».
Articolo di Angelo Andrea Vegliante