Il tecnico del’Uruguay ha fatto parlare di sé prima per la sua condizione fisica, poi per il suo operato. La colpa, però, non è del CT, ma di una cultura che imprigiona i più ‘deboli’ in un’esistenza da eroi, sempre e comunque
L’attesa è quasi finita, tra pochi giorni conosceremo il nome dei Campioni del Mondo di Russia 2018. Un evento che, come ogni edizione, raccoglie varie storie da tutto il globo in un unico calderone mediatico: basti pensare alla Costa Rica senza esercito e al Geyser sound dei tifosi islandesi. Stavolta è Óscar Tabárez a finire sotto le luci dei riflettori: vecchia conoscenza del calcio italiano (Milan e Cagliari) e attuale commissario tecnico dell’Uruguay, l’ex difensore sudamericano ha guidato il proprio team fino ai quarti, sbattendo il muso contro la Francia di Deschamp.
Come mai si è parlato così tanto di Tabárez? Esattamente due anni fa, l’uruguaiano rivelò di essere affetto dalla sindrome di Guillain-Barrèdi, una neuropatia cronica che attacca il sistema motorio. Di fatto, durante la permanenza della sua nazionale nella competizione internazionale, il ct si è fatto accompagnare da una stampella, che l’ha retto durante i vari spostamenti nell’area tecnica di gara: a spopolare sono state proprio le immagini riprese mentre l’allenatore tirava i fili del gioco della propria squadra, esultava per un gol di Cavani e compagni, saliva con fatica le scalette che l’avrebbero portato al limite del campo.
Il problema? Ancora una volta si è esaltato il pietismo verso la persona svantaggiata fisicamente, quando sarebbe doveroso smussare l’aurea di commiserazione che viene dipinta attorno le persone con disabilità. Eroismo, compostezza morale, rispetto a oltranza: sono solo alcune delle caratteristiche che si ripetono quando il protagonista di una storia ha una disabilità. Operare strumenti linguistici di tale livello non fanno altro che accrescere una divisione mentale netta e marcata: la disabilità è sinonimo di eroismo, sempre e comunque. Punto.
Ci è bastato passare un pomeriggio a sfogliare diversi articoli pubblicati su prestigiose testate online per averne la conferma: “È lui il ct che ha già vinto i mondiali”, “La lezione del Maestro oltre la stampella”, “[...] in un torneo da uomini veri, Tabarez ha già vinto”, “[...] il desiderio di tanti è vederlo alzare la coppa e gettare la stampella che ha sorretto il sogno”. Tutto ciò non aiuta a migliorare la concezione che la persona venga prima della disabilità, una condizione che non nega a nessuno di fare ciò che fanno tutti: vivere la propria quotidianità.
Se proprio volessimo parlare della situazione di Tabárez, si dovrebbe riflettere sulle possibilità di inclusione lavorativa e sociale che la sua figura può comunicare. Ad esempio, come abbiamo già sottolineato in scritti recenti, l’Italia non è un paese dalla forte integrazione. Basti pensare che, all’inizio dell’anno, si è scatenato un putiferio gigantesco da parte di diversi imprenditori contro il Decreto legge Milleproroghe che incentiva le assunzioni nel mondo del lavoro delle persone con disabilità.
Come di consueto – purtroppo -, lo stato fisico di una persona passa in primo piano. La favola creata imponeva di tifare Uruguay per senso pietistico e – anche – per lavarsi un po’ la propria coscienza: se sono affine a uno sfortunato allenatore con una stampella, vuol dire che sono una brava persona. E basta. Dimenticando, però, tutte le battaglie sociali che persone come Tabárez combattono ogni giorno, prima su tutte l’essere definito prima come uomo e poi come stampella.
Ma il finale della storia resta sempre lo stesso: sotto i riflettori c’è una persona al tempo stesso sfortunata ed eroica; a luci spente sono anime invisibili che non esistono, a cui possiamo occupare il parcheggio riservato.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante