Polemiche a raffica per la campagna di comunicazione raffigurante alcuni ragazzi con disabilità con slogan controversi. Abbiamo chiesto all’associazione di controbattere alle accuse ricevute
Un’incredibile ondata di popolarità ha investito in questi giorni Parent Project, associazione di famiglie di persone con distrofia muscolare di Duchenne e Becker, attiva in Italia da venticinque anni. Per la sua ultima campagna social, ha deciso di puntare ad uno stile non convenzionale, proponendo una serie di fotografie che ritraggono alcuni soci con distrofia, accompagnate da slogan provocatori: “Poteva andarmi peggio, potevo nascere razzista”, “Poteva andarmi peggio, potevo nascere omofobo” o ancora “terrapiattista”, “complottista”, “negazionista” e “no vax”. Ed è proprio quest’ultima categoria che si è sentita punta nel vivo ed ha reagito con una valanga di commenti sprezzanti ed insulti. Insomma, l’obiettivo di ottenere visibilità è stato raggiunto, ma ad un prezzo piuttosto salato.
Raggiungiamo Parent Project per conoscere il loro punto di vista su questa vicenda. Ci risponde Elisa Poletti dell’ufficio stampa dell’associazione.
Con quali intenti è stata realizzata questa campagna di comunicazione?
“Due sono gli obiettivi principali. Da una parte quello di mettere in evidenza l’importanza della ricerca scientifica, che nel caso della distrofia di Duchenne e Becker negli ultimi venticinque anni ha davvero fatto dei passi in avanti perché ha permesso di migliorare la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti. La ricerca per noi è uno degli assi portanti della nostra attività come associazione, da sempre la sosteniamo e raccogliamo fondi per sostenerla.
Il secondo obiettivo è quello di – indirettamente, ma neanche tanto – sdoganare alcuni luoghi comuni nel parlare di disabilità e nel modo in cui le persone con disabilità parlano di se stesse, per cui abbiamo deciso di scegliere un linguaggio comunicativo un po’ diverso dal nostro solito, affidandoci all’agenzia KIRweb, famosa per la pubblicità delle pompe funebri Taffo.
Abbiamo utilizzato un linguaggio un pochino più dirompente e provocatorio non per creare polemica, ma per lanciare un sasso nello stagno dei social media, raggiungendo un pubblico più ampio”.
In che modo è stata presa la decisione di lanciare la campagna “Poteva andarmi peggio”?
“Attraverso un processo democratico che ha coinvolto tutti gli organi rappresentativi dell’associazione. C’è stata quindi una lunga valutazione, una consultazione sia dei pazienti che dei genitori, dato che l’associazione è governata da loro.
Ci sono state sottoposte diverse alternative e questa proposta è stata molto discussa internamente perché chiaramente abbiamo a che fare con un messaggio molto forte, con una provocazione legata a temi che al momento sono divisivi nella nostra società, quindi abbiamo valutato molto i pro e i contro di questa opzione. Alla fine è stata scelta questa modalità proprio per provare a fare un pochino più di rumore, mantenendoci nell’ambito di un linguaggio di narrazione della disabilità positiva; non partendo dal compatimento, dal pietismo, dal dolore come spesso accade”.
Le reazioni di disapprovazione sono state molte e piuttosto accese. Eravate preparati ad un’accoglienza del genere?
“È la prima volta che lanciamo un messaggio così di rottura, per cui avevamo messo in conto sicuramente una buona ondata di reazioni negative.
Per capire se percorrere o meno questa strada, ci siamo lungamente confrontati e alla fine gli organi che rappresentano i pazienti e i genitori hanno deciso di procedere proprio per giocare su questo elemento di provocazione e cavalcare l’onda di questa prima reazione, nell’ottica di arrivare poi ad un dibattito su questi temi al di là del sasso lanciato nello stagno di cui sopra”.
Delle varie categorie citate nella campagna, praticamente l’unica che ha fatto sentire la sua voce è stata quella dei cosiddetti “no vax”, che hanno reagito numerosi e in maniera molte volte scomposta. Come ve lo spiegate?
“Il nostro intento non era quello di entrare nel merito della polemica vax/no vax. Diciamo che il filo conduttore di questi soggetti riguarda la ricerca e la scienza, per cui tutto si gioca su un forte paradosso, su una auto ironia di fondo dei ragazzi che hanno fatto da testimonial. Parent Project da venticinque anni sostiene la ricerca, per cui sicuramente tra le due parti siamo più a favore della scienza, però l’intento non era quello tanto di fare campagna vaccinale”.
Questa è invece una delle accuse che vi viene fatta.
“Esatto, ma si tratta di fraintendimenti. Questa campagna si inserisce in un progetto molto più ampio, che viene finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Noi da diversi anni realizziamo progetti di ampia portata che coinvolgono la comunità con molteplici azioni indirizzate ai pazienti alle famiglie, iniziative di formazione eccetera.
Questa campagna di comunicazione non ci è stata imposta. Qui nessuno sta seguendo nessuna agenda, però capisco che magari per un pubblico ampio vedere determinati messaggi ha subito fatto scattare collegamenti con altre realtà”.
Tra i detrattori della campagna, molti sostengono che i ragazzi che si sono prestati come testimonial siano stati strumentalizzati. Come rispondete a queste accuse?
“È assolutamente falso. Sono accuse di stampo abilista, che danno per scontato che i testimonial siano persone incapaci di intendere e di volere o comunque non in grado di esprimere una propria opinione anche scomoda, anche che non può piacere a tutti. I nostri testimonial sono tutti ragazzi attivi nell’associazione o che fanno comunque parte di famiglie socie. Sono stati tutti coinvolti nella fase precedente di valutazione della campagna e hanno potuto decidere liberamente, soppesare i pro e i contro e addirittura alcuni di loro hanno anche scelto a quale claim desideravano essere abbinati. Quindi noi possiamo tranquillamente smentire il fatto che queste persone siano state strumentalizzate con questa finalità”.
A conti fatti, ci avete guadagnato in visibilità o perso in approvazione?
“Bella domanda. La risposta la sapremo tra qualche mese in quanto siamo solo all’inizio e intendiamo creare sempre più momenti di confronto. Sicuramente queste tematiche sono emerse attraverso i commenti negativi, pensiamo alle accuse di strumentalizzazione dei nostri pazienti; sono per noi argomenti molto importanti da sviscerare perché hanno dietro una cultura e una visione della disabilità che noi vorremmo contribuire a smontare, contribuendo nel nostro piccolo a portare avanti una trasformazione”.
Se poteste tornare indietro, rifareste tutto o cambiereste qualcosa?
“È una valutazione che faranno a tempo debito gli organi decisionali”.
Cosa vorreste dire a chi sta sentendo parlare per la prima volta di Parent Project ma non vi conosce?
“Vi invitiamo a venirci a trovare per conoscerci meglio, vedere come lavoriamo e le tantissime attività che portiamo avanti tutto l’anno da tanti anni. La nostra attività non è nata la settimana scorsa con questa campagna così discussa, ma è cominciata venticinque anni fa. Venite a scoprire quello che facciamo con le famiglie, con il Centro Ascolto, tutte le attività di raccolta fondi che coinvolgono la nostra comunità e soprattutto a scoprire tutto quello che facciamo a livello di divulgazione scientifica e di sostegno alla ricerca su queste patologie, che ancora non hanno una cura. Questo è il cuore della nostra missione”.
(Manuel Tartaglia)