Ci sono voluti otto anni per arrivare alla sentenza definitiva: occupare un parcheggio riservato alle persone con disabilità è violenza privata, ma solo in alcuni casi. Per capire meglio la sentenza n. 17794/2017, stabilita dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte, bisogna ripercorrere i fatti, e capire perché si tratti di una vittoria a metà.
Nel 2009, a Palermo, Giuseppina, una donna di 49 anni con disabilità, si reca al solito parcheggio riservato di cui è titolare, occupato però da un’altra vettura. Il proprietario del mezzo, Mario Milano, uomo di 63 anni, lascerà l’auto lì per ben 16 ore, mentre la donna si rivolge a diverse forze dell’ordine per chiedere giustizia, senza però ricevere aiuto: «Tutti gli agenti erano impegnati in una riunione con il comandante», riferisce Giuseppina in merito a un colloquio con la polizia municipale. La donna si appella anche ai carabinieri, ma questi si dichiarano non idonei a tale compito e inoltrano la richiesta ai vigili. La vicenda si conclude alle 2:30 di notte, con la rimozione dell’auto da parte del carroattrezzi. In seguito, Giuseppina querela Mario, il quale davanti alla corte sostiene che non sia stato lui a parcheggiare lì, ma il figlio. Niente scuse: il tribunale di Palermo lo condanna a 4 mesi di carcere per violenza privata, sentenza poi confermata in appello. Non basta neanche il ricorso dell’uomo, che vede la sentenza confermata anche dalla Corte di Cassazione, che rigetta il suo reclamo e lo ritiene colpevole del reato ex art. 610 c.p., sempre con la condanna di violenza privata, insieme al risarcimento danni di 5 mila euro per la parte offesa e il pagamento delle spese processuali.
Tutto è bene quel che finisce bene, verrebbe da dire. Uno spazio riservato è stato difeso dalla giustizia, oseremmo pensare. Purtroppo, però, ci sono due punti da chiarire. Primo su tutti, il tempo: ci sono voluto ben 8 anni di lavori giuridici per arrivare a questa sentenza storica. Un lasso di tempo incredibile, per una “moda” che ristagna in Italia da tanti anni.
Un altro punto su cui dobbiamo soffermarci è la sentenza in sé. Si è giunti a parlare di “violenza privata” in quanto il parcheggio riservato era di proprietà della persona, esiste un titolare di quel posto. Dunque, se ci trovassimo di fronte a un parcheggio generalmente riservato alle persone con disabilità (quelli di un centro commerciale, di un cinema e così via), senza che vi sia un proprietario reale, non ci troveremmo di fronte a un reato penale, bensì alla violazione dell’art. 158 comma 2 del Codice della Strada, punibile con una multa salata.
Cosa si evince da tutto ciò? Serve un altro passo in più per rendere definitivamente ai furbetti del parcheggio vita difficile. C’è chi ha costruito dispositivi tecnologici in grado di evitare l’occupazione di un parcheggio riservato (ne abbiamo parlato, si tratta di Tommy) e chi, invece, grazie a ironia e video virali, vuole insegnare il rispetto per gli altri (The Ramp Lesson è l’ultima iniziativa conosciuta alle cronache). “Se vuoi il mio parcheggio, prenditi anche la mia disabilità”, recitava lo slogan di una vecchia iniziativa. Oggi si è vinta una battaglia, ma la guerra al parcheggio è ancora aperta.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante