Associazioni sul piede di guerra contro quello che è considerato un vero e proprio accanimento contro i più deboli
È ormai notizia confermata: i lavoratori con un’invalidità parziale (tra il 74 e il 99%) rischiano di perdere l’assegno d’assistenza mensile, anche se la prestazione è occasionale e il reddito da lavoro è inferiore ai 5.000 euro circa all’anno.
Lo stabilisce la Corte di Cassazione, rendendolo noto il 14 ottobre scorso. Il verdetto dei giudici giunge dopo l’analisi delle norme emanate in Italia negli anni.
Infatti, la Legge 118/1971, molto vecchia ed inattuale nel definire il concetto di “disabilità”, già prevedeva che l’assegno fosse riservato alle persone prive di impiego, ma fino ad ora era stata interpretata in maniera estensiva, permettendo a chi svolgeva piccoli lavori di non perdere la prestazione, a condizione che fosse iscritto alle liste del collocamento mirato e guadagnasse fino a 8.145 euro annui per un lavoro dipendente, e fino a 4.800 euro per un lavoro autonomo. Ma, recepita dall’Inps la sentenza, si scatenano reazioni tra le associazioni di tutela dei diritti delle persone con disabilità. Fish, Fand e Anmic incontrano la ministra Stefani e chiedono una modifica della legge, ma l’Ente scrolla le spalle, spiegando di aver solo formalizzato, rendendo operative le precedenti sentenze emesse dagli organi giudiziari, sulla base di norme votate dal Parlamento.
Perciò CoorDown e Uniamo (Federazione delle associazioni delle persone con malattie rare) denunciano “inquietanti segnali per la disabilità e per l’inclusione sociale” perché “questa inedita direttiva dell’Inps ha recepito in senso estremamente più restrittivo quanto stabilito dalla Cassazione”.
Ora la preoccupazione più diffusa è che tutto ciò possa portare verso l’auto-isolamento delle persone con disabilità, spingendole a preferire l’assegno al lavoro e a rinunciare a vivere quelle forme d’espressione personale e di socialità ad esso legate. Ma soprattutto, aggiungono le organizzazioni: “Nella draconiana decisione non è scevro da responsabilità nemmeno il Legislatore”. Infatti, l’articolo 13, stabilendo che agli ‘invalidi civili’ tra i 18 e i 67 anni d’età sia concesso un assegno, finché ‘non svolgano attività lavorativa per il tempo in cui tale condizione (d’invalidità, NdR) sussista’, crea un vero e proprio cortocircuito semantico che noi, persone con disabilità eppure in parte produttive e meritevoli d’inclusione sociale, rischiamo di pagare caro!”.
(Giuseppina Brandonisio)