Venire al mondo è uno degli atti più straordinari e controversi di sempre. Vita che genera altra vita, tutto così perfetto e naturale, da sembrare quasi impossibile. Proprio per questo nessuno può scegliere dove nascere, se dalla parte giusta o sbagliata del mondo, nel tempo migliore o peggiore, può solo affrontare la propria esistenza al massimo delle possibilità a disposizione che variano a seconda dei contesti sociali e delle situazioni culturali. Quindi, non è mai semplice gestire o comprendere determinati comportamenti. Specialmente in Italia, dove da qualche settimana si è tornati a parlare di Ius Soli: la legge che espande i criteri per ottenere la cittadinanza italiana, riguardante soprattutto i bambini nati nel nostro Paese da genitori stranieri, oppure coloro che sono giunti in Italia da piccoli. Il provvedimento è un punto di forza del Partito Democratico, mentre sono contrari i principali esponenti dell’opposizione: Forza Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle (che si astiene da qualsiasi votazione in Senato, come aveva già fatto alla Camera).
Attualmente, nel nostro Paese, vige lo Ius Sanguinis – provvedimento che risale al 1992 – (dal latino “diritto di sangue”) secondo cui un bambino è italiano se almeno uno dei due genitori è italiano. Le cose cambiano nel momento in cui un bambino è nato sul territorio italiano avendo, però, entrambi i genitori stranieri: questi potrà richiedere la cittadinanza nostrana soltanto al raggiungimento della maggiore età, dopo aver dimostrato di aver vissuto in Italia assiduamente e legalmente. La nuova proposta di legge – tuttora argomento dibattuto tra chi l’ha definita “un pastrocchio invotabile” e chi l’ha presentata come innovazione – guarda al modello americano: chi nasce negli Usa automaticamente è americano, pur essendo frutto di un amore straniero. Da qui, il termine Ius Soli, “diritto legato al territorio”. Tale iter in Europa non è ancora mai stato attuato, perciò l’Italia potrebbe fare da apripista. Siccome, però, quelle statunitensi sono posizioni già collaudate, da noi si sta pensando al cosiddetto Ius Soli “temperato”: un bambino è automaticamente italiano se uno dei due genitori è nel nostro Paese da almeno cinque anni, in aggiunta ad altri tre parametri da tener in considerazione. Economico: avere un reddito non inferiore all’importo dell’assegno sociale, strutturale: essere in possesso di un alloggio che risponda ai requisiti d’idoneità previsti dalla legge, e culturale: aver superato un test di conoscenza della lingua italiana.
Ci sarebbe, inoltre, un’altra strada per esser definiti cittadini italiani a tutti gli effetti ed ha a che fare con lo Ius Culturae che coinvolge il sistema scolastico italiano: potranno richiedere la cittadinanza coloro che nati in Italia, entro i 12 anni, sono riusciti a frequentare almeno un ciclo scolare di cinque anni. Chi invece è arrivato nel nostro Paese tra i 12 e i 18 anni d’età potrà esser riconosciuto cittadino italiano soltanto dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e aver superato un quinquennio scolastico.
Il sistema legislativo che ruota attorno alla cittadinanza, ad oggi, dimostra essere carente: esclude migliaia di bambini e ragazzi, nati nel nostro territorio, da agevolazioni e benefici soltanto perché i loro genitori – essendo stranieri – si ritrovano vincolati dalla burocrazia legata ai permessi di soggiorno col rischio di dover lasciare lo Stivale. Per questo, nelle sedi opportune, si sta discutendo per offrire un’alternativa garantita e garantista: “Al momento in Italia ci sono circa 1 milione e 65mila minori stranieri. Moltissimi di questi ragazzi sono figli di genitori da tempo residenti in Italia, oppure hanno già frequentato almeno un ciclo scolastico (a volte le due categorie si sovrappongono). Sempre secondo i calcoli della Fondazione Leone Moressa, al momento i minori nati in Italia da madri straniere dal 1999 a oggi sono 634.592 (assumendo che nessuno di loro abbia lasciato l’Italia). Per quanto riguarda lo Ius Culturae, sono invece 166.008 i ragazzi stranieri che hanno completato almeno cinque anni di scuola in Italia, non tenendo conto degli iscritti all’ultimo anno di scuole superiori perché maggiorenni” (16 giugno 2017, Il Post).
Dilungarsi nell’emanazione di questo provvedimento, tra baruffe e opinioni contrastanti nelle aule di Camera e Senato, non fa altro che alimentare lo scetticismo e la rassegnazione di quelli che son costretti a vivere “vite a metà” – come spiega Angela Gennaro su “Il Fatto Quotidiano” –, tra loro ci sono anche molte persone con disabilità che, essendo figli di stranieri, aspettano e sperano in un decreto che migliorerebbe – quantomeno burocraticamente – la loro condizione precaria. Lo confermano le parole di Toni Nocchetti sul Corriere della Sera: “Vorrei mettere in luce un aspetto strettamente connesso con il provvedimento in esame, che interessa gli oltre 12.500 alunni disabili stranieri alla vigilia del prossimo anno scolastico. Questi bambini, disabili come i nostri figli nati ad Asti, Viterbo o Siracusa, continueranno a frequentare la scuola pubblica con minori tutele rispetto ai loro coetanei italiani. In realtà le differenze non sono immediatamente evidenti perché, in linea teorica, gli insufficienti organici di insegnanti di sostegno sarebbero equamente distribuiti per tutti gli alunni disabili. Nella pratica il ricorso ai Tar è di fatto impedito a questi genitori stranieri per motivi amministrativi (le loro famiglie non esistono) ed economici (sono poveri ). Quanto sia purtroppo necessario adire a vie legali per assicurare ai propri figli disabili un tempo scuola di qualità è ampiamente dimostrato dagli oltre 30.000 ricorsi presentati dalle famiglie italiane negli ultimi 5 anni. Anche il ricorso alle terapie sanitarie e riabilitative trova per questi bambini stranieri impedimenti spesso insormontabili. Chi scrive ha ricevuto diverse segnalazioni di famiglie straniere che denunciano l’impossibilità per il loro bambino disabile a seguire un percorso terapeutico”.
Chi parla di “sostituzione etnica” o di “favori agli immigrati” sta trascurando – volutamente o meno – le esigenze di persone che abitano le nostre strade già da tempo e che, tra le altre cose, devono combattere persino l’inaccessibilità burocratica sommata a quella territoriale. Quando si parlerà di passo in avanti piuttosto che di pastrocchio, allora, forse, sarà stato aggiunto un tassello importante alla civiltà. In grado di porre il suo accento nei confronti di una sola razza: quella umana, che accomuna paesi ed etnie sotto la certezza del rispetto e della considerazione.
Articolo di Andrea Desideri