“La carica dei 104” (il numero ricorda la legge che tutela i diritti delle persone con disabilità). Una rubrica che, mensilmente, intende fornire ritratti di personalità che non si sono abbattute e, superando ogni avversità, hanno raggiunto il successo in ogni campo: arte, cultura, sport, spettacolo. Speriamo che questa raccolta di storie sia di buon auspicio per tanti, giovani e adulti, che non riescono ancora a trovare la forza di emanciparsi. Andrea Desideri, che curerà questo spazio, racconta l’attrice Monica Vitti.
Capelli biondi che cadevano lungo le spalle, occhi profondi e verdi, un sorriso smagliante che era il miglior accessorio – come soleva dire Audrey Hepburn – ad una mimica facciale intramontabile. Questo (e non solo) è Monica Vitti, Maria Luisa Ceciarelli per l’anagrafe. Attrice – anzi: l’attrice – romana per antonomasia. Da quando Anna Magnani non c’è più. I più giovani l’avranno vista in televisione, d’estate, nel corso dell’effetto nostalgia, durante qualche revival cinematografico. Quelli che sono più grandicelli, invece, hanno potuto apprezzarla nel suo periodo di massimo splendore: una vera e propria icona del cinema e della televisione, che ha saputo fare della sua bellezza un tratto distintivo e della sua professionalità una peculiarità unica. Era ovunque, spaziava dalle sale cinematografiche al varietà televisivo in maniera duttile e disponibile. Comicità, dramma, commedia, in grado di misurarsi con qualunque registro, non si tirava mai indietro. Monica è sempre stata un esempio di star meno pop e più popolare, mai banale e costantemente preziosa.
Oggi, al cinema, in televisione, circolano quasi sempre gli stessi nomi. Tuttavia, si va molto a periodi: il successo sembra essere alla portata di tutti, quindi effimero. Un attimo prima sei nell’Olimpo e quello dopo ritorni bruscamente in terra. Forse è per questo che la figura di Monica Vitti, anche se non è più sulle scene da quindici anni, non si è mai scalfita. Perché arriva da un’altra epoca storica, quella in cui la ribalta si conquistava a fatica ed ogni palco era il risultato di una tortuosa gavetta. Prima di essere la fantasia di molti italiani, l’aspirazione per molte donne, nonché motivo di vanto per altrettanti registi, lei è stata quella dalla voce roca e fastidiosamente dialettale che difficilmente avrebbe fatto strada. Così le dicevano alcuni insegnanti di recitazione, che adesso, probabilmente, si staranno ancora mangiando le mani per non aver colto i segnali di un talento precoce. A dirlo è lei stessa, all’interno della sua biografia Sette sottane e quella, in cui racconta anche il difficile rapporto con la mamma (di cui rimase prematuramente orfana) che non vedeva di buon occhio la carriera attoriale.
Chi, invece, ha sempre colto qualcosa in più nelle sue grazie (dentro e fuori la scena) è stato il regista Michelangelo Antonioni. Con lui è maturata come attrice e sbocciata in quanto donna, data la lunga relazione sentimentale che i due hanno intrapreso. Seguirono quattro film da protagonista nella celeberrima tetralogia dell’incomunicabilità, dove ha vestito i panni della tormentata Claudia ne L’avventura (1960), incarnato la tentatrice Valentina ne La notte (1961) e animato le gesta della misteriosa e scontenta Vittoria ne L’eclisse (1962). Il cerchio si chiuse con la nevrotica Giuliana in Deserto rosso (1964). Dalle turbe psichiche alle risate, soprattutto in compagnia del compianto collega e amico Alberto Sordi: nei film da lui diretti, Monica si avvicinerà prepotentemente al grande pubblico nazionalpopolare. Amore mio aiutami e Io so che tu sai che io so, due veri cult della commedia all’italiana.
Sordi, ma anche Monicelli, Salce, Scola, De Sica, Campanile. Innumerevoli sono i registi che hanno avuto l’occasione e il privilegio di dirigere Monica. La Vitti, da queste collaborazioni, ha ottenuto (meritatamente) anche parecchi riconoscimenti: 5 David di Donatello come miglior attrice protagonista (più altri quattro encomi speciali), 3 Nastri d’Argento, 12 Globi d’oro (di cui due alla carriera) ed un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián e una candidatura al premio BAFTA.
I premi restano mostrine da esibire in casa, con gli amici. Il riconoscimento migliore resta l’affetto del pubblico, lo stesso che la ricorda (non abbastanza) facendo zapping e magari ritrovando una sua interpretazione. Dai primi anni del Duemila si è ritirata a vita privata per dedicarsi a sé stessa, iniziando a fronteggiare il collega più ostico: l’Alzheimer. Assistita dal marito Roberto Russo, che l’ha sempre difesa (persino dalle recenti falsità riguardanti un suo ricovero in una clinica svizzera), ha da poco spento 86 candeline. Una vita difficile la sua, fatta di un’infanzia triste e una vecchiaia amara, in mezzo celebrità ed emozioni. D’altronde, lei l’ha sempre ammesso: “Faccio l’attrice per non morire” e, per questo, sarà sempre viva ai nostri occhi. Perfino quando dovranno scorrere gli inevitabili titoli di coda su una donna di spettacolo che è stata (ed è) anche uno spettacolo di donna.
Articolo di Andrea Desideri