Cala il sipario sulle Paralimpiadi di Rio 2016, con la cerimonia di chiusura del 18 settembre al Maracanã, si passa ufficialmente il testimone a Tokyo che ospiterà la manifestazione nel 2020. L’Italia esce dalla competizione paralimpica galvanizzata e fiera: gli azzurri tornano a casa con trentanove medaglie complessive; dieci ori, quattordici argenti e quindici bronzi. Oltre a superare il medagliere delle Olimpiadi italiane, gli atleti paralimpici nostrani hanno dimostrato qualcosa di ben più grande e sono riusciti in un intento che era l’auspicio di tutti inizialmente: far interessare a chiunque la competizione. Infatti, i Giochi Paralimpici di Rio hanno riscosso l’interesse e la curiosità di moltissimi rispetto alle passate edizioni, persino i cosiddetti “tifosi occasionali” – cioè quelli che normalmente snobbano certi sport o eventi, perché nello Stivale sembrerebbe esistere solo il calcio – sono stati “costretti” (e menomale) a riconoscersi nella forza e nel carisma dei nostri campioni. Merito dei media, che mai come quest’anno sono stati presenti, raccontando gli esiti delle gare sui primi canali del Servizio Pubblico (non come in passato che per vedere una gara di handbike si dovevano aspettare le “venticinque” – dopo mezzanotte – su RaiSport con i sottotitoli in cinese ed una regia ai limiti del consentito), e hanno dato spazio ad approfondimenti per ogni disciplina. Un encomio va fatto anche alla maniera con cui il pubblico di casa nostra ha reagito all’evento: successivamente ad ogni medaglia o successo, non si parlava più solamente di forza di volontà o resilienza – a rimarcare la differenza fra un atleta normodotato e uno con disabilità – ma unicamente d’impresa raggiunta. Segno che le cose stanno cambiando, forse. Non c’è più quello squilibrio e la disparità fra categorie, ma si viaggia tutti sull’onda motivazionale del sostegno e dell’appartenenza.
Questo perché, innanzi tutto, le Paralimpiadi appena concluse hanno dimostrato che gli atleti italiani non vivono esclusivamente all’ombra del mito Zanardi – seppur con i suoi record continui a stupire –, ma hanno le carte in regola per scrivere la loro personale pagina di storia sportiva e farsi ricordare, quindi, dalla collettività che assiste e supporta. Era questo l’aspetto che forse facevamo fatica a riscontare negli anni passati, dove trovavamo un ex campione automobilistico molto conosciuto ed altri suoi colleghi che, pur essendo atleti, soccombevano sotto la sua eco di notorietà. Le parole di Federico Morlacchi, artefice della prima medaglia d’oro italiana nei 200 metri misti di nuoto, dimostrano quanto la musica sia cambiata: “Questa vittoria è il coronamento di tante sofferenze e tanta fatica. Questa medaglia è tutta per me. Meno male che ho una gamba finta, così me ne tremava una sola”. Inoltre, i successi italiani sono arrivati da parte dei big più attesi, Zanardi e Beatrice Vio su tutti, che hanno fatto da ciliegina su una torta già ricolma di soddisfazioni. Non è stato così alle Olimpiadi, dove i nostri atleti più illustri hanno mancato l’appuntamento sul podio più alto (chiedere a Pellegrini, Russo, Nicolai e Lupo). Certo, l’Italia ha ritrovato un po’ d’orgoglio e lustro con la prestazione – l’ultima – di Tania Cagnotto, ma quella brasiliana non si può sicuramente definire un’olimpiade indimenticabile. Quindi, a far risuonare l’inno italiano più volte ci hanno pensato quelli arrivati in sordina, che volta per volta hanno inanellato un trionfo dopo l’altro, facendo capire che c’è luce in fondo al tunnel e che l’olimpo sportivo deve far posto anche a loro. Così grazie a un sorriso, una lacrima per la commozione, una goccia di sudore versata dopo kilometri, il Paese ha ritrovato la voglia di tifare oltre le differenze e le diffidenze. Il desiderio di tenere alta quella bandiera a tre colori, che troppo spesso è stata ripiegata.
Stavolta, abbiamo assistito a un caleidoscopio inedito di emozioni: il pietismo faceva posto alla rinascita, la volontà anticipava il lieto fine, il trionfo non era utopico ma reale. Come ha sottolineato Assunta Legnante – medaglia d’oro nel lancio del peso: “Non sono nessuno per dare messaggi, ma dico non mollate perché quando tutto è buio basta fare un passo più in là per trovare la luce”. Oggi, quel passo è stato compiuto e la luce l’abbiamo vista tutti. Una luce che abbaglia per come risplende il luccichio delle nostre medaglie. Dopo undici giorni, possiamo dire “L’Italia s’è desta”. Ed era ora.
Articolo di Andrea Desideri