A fine agosto, il Consiglio dei ministri dell’Egitto ha approvato un disegno di legge per inasprire le sanzioni contro l’infibulazione: il progetto prevede per chi commette reato un periodo di carcere tra i tre mesi e i tre anni a un minimo di cinque anni fino ad un massimo di sette. Si tratta di una situazione storica abbastanza delicata in quanto, secondo i dati Onu del giugno 2015, l’Egitto è uno dei paesi mondiali dove maggiormente si praticano le mutilazioni genitali femminili (MGF). Tra gli oppositori egiziani, però, hanno fatto rumore le dichiarazioni di un deputato, Elhami Agina, il quale ha tenuto a sottolineare come questa legge sia oltremodo superflua alla luce di un problema umano: «Per abbandonare questa pratica c’è bisogno di uomini forti sessualmente, me nel paese non ce ne sono». Neanche a dirlo – e meno male -, numerose denunce sono partite all’indirizzo di Agina, tanto che il presidente del parlamento Ali Abdel Aal ha aperto un’inchiesta. Operazione pubblica necessaria, visto che le donne sottoposte all’infibulazione nello stato egiziano sono il 92% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 49 anni. Eppure Agina non ha ritirato le proprie affermazioni, ma in diversi contesti televisivi ha ribadito le sue idee, chiarificando però come le mutilazioni siano un crimine che ha rifiutato di applicare alle proprie figlie. Non è la prima volta che il deputato si fa conoscere alle cronache mondiali per asserzioni di dubbia ragione, visto che già tempo addietro chiese di vietare la pratica del bacio in pubblico per scongiurare il diffondersi di malattie e di instituire i test di verginità obbligatori per le ragazze che intendono iscriversi all’università: sappiamo dunque che persona abbiamo di fronte. Ma le sue parole hanno riacceso le luci su un argomento piuttosto delicato e su una pratica che, il più delle volte, è stata confusa con vari temi, quali l’immigrazione e la globalizzazione.
Partiamo dal principio. L’infibulazione è una mutilazione genitale femminile e consiste nell’asportazione del clitoride, delle piccole e grandi labbra e la cucitura della vulva, lasciando un piccolo foro per l’urina ed il sangue mestruale. Secondo la tradizione, la cucitura viene tolta dallo sposo la prima notte di nozze, perché l’inizio dell’attività sessuale di una donna la si fa coincidere implicitamente con il matrimonio. Successivamente, a penetrazione avvenuta, le madri possono essere ri-infabulate, in modo da ricreare la condizione prematrimoniale. Non tutte sono “fortunate” nell’essere sottoposte a questa tecnica con la strumentazione adeguata: ad esempio, la maggior parte delle bambine, fino ad un’età di 15 anni, vengono operate con arnesi taglienti improvvisati, magari utilizzati poco prima per altri pazienti, rendendo certa la diffusione di malattie trasmissibili attraverso il sangue, come l’Aids. Questa però non è l’unica atroce conseguenza: a livello fisico, si rischiano infezioni, emorragie, complicanze durante il parto, shock settico e, nei casi più gravi, la morte; a livello psicologico e sessuale, gli effetti possono essere di lungo termine. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, sono oltre 100 milioni nel mondo le vittime di mutilazioni genitali femminili, e circa 3 milioni ogni anno le donne a rischio. Secondo l’Unicef, l’incidenza più alta (90%) si registra in Africa, in particolare in Somalia, Eritrea, Egitto, Guinea, mentre quella più bassa (4%) in Ghana, Togo, Zambia, Uganda, Camerun. C’è da sottolineare però la presa di posizione di alcuni dei paesi sopracitati: il Gambia ha dichiarato fuorilegge l’infibulazione, seguendo l’esempio della Nigeria; in Somalia, il primo ministro Omar Abdirashid Ali Sharmarke, nel marzo 2016, ha aderito ad una campagna che prende posizione contro l’infibulazione. Le forti resistenze a livello sociale però minano tutt’oggi la repressione del fenomeno: le indagini di Amnesty International, focalizzate nell’Africa subsahariana, sottolinea la difficoltà di vietare la pratica da parte delle stessi madri a loro volta mutilate, che senza MGF non possono essere considerate donne pronte al matrimonio. Situazione analoga la troviamo in Asia, i cui casi sono registrati in Malaysia, Oman, Yemen e Indonesia. Anche l’Occidente non è esente dal fenomeno, in particolar modo l’America e l’Inghilterra. Nel 2012, la stessa BBC lanciò un allarme significativo, definendo la Gran Bretagna il paese europeo più colpito dall’infibulazione, anche se la pratica è stata vietata ben 31 anni fa. E questa situazione sembra non arrestarsi: tra il gennaio e il marzo 2016, sono stati registrati ben 1242 casi di MGF in terra inglese, di cui circa 29 (2%) riguardano ragazze minorenni e 11 riconducibili a donne nate nel Regno Unito. Quest’ultimo dato conferma come questa azione disumana non sia sempre legata a motivi religiosi, ma coinvolge persone di etnie e fede diversa. È determinante sottolinearne le cause, in quanto il più delle volte il tema dell’infibulazione è stato utilizzato come giustificazione all’innalzamento delle frontiere contro i migranti provenienti dai paesi in cui la pratica è diffusa o, peggio, a discolparsi dal numero di morti nelle acque del Mediterraneo.
L’Italia dispone di una legge per arrestare il fenomeno: la n.7 del 9 gennaio 2006, Disposizioni concernenti la prevenzione ed il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile che introduce il reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili. In base a quanto emesso dal Ministero della Salute, l’infibulazione rientra nelle violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine. Gli articoli 2,3 e 4 del testo mirano a garantire l’assistenza alle vittime e l’eliminazione del fenomeno, grazie soprattutto alle campagne di sensibilizzazione promosse da organizzazioni di volontariato e strutture sanitarie. Tra le altre cose, la legge prevede che ciascuna Regione si impegni ad attivare tutte le iniziative volte alla formazione del personale per contrastare la MGF. Per supportare il tutto, il Ministero della Salute ha stanziato nei primi anni 2000 fondi per un totale di 2 milioni e 500 mila euro. Cifra che otto anni dopo è stata drasticamente ridotta agli attuali 178 mila euro. Diverse le sanzioni previste: ai sensi dell’articolo 583-bis del codice penale, l’infibulazione rappresenta un reato punito con la reclusione da 4 a 12 anni, che passano dai 3 ai 7 anni per chi provoca lesioni agli organi genitali femminili. Le punizioni si aggravano se la pratica è commessa su un minore, allorché il padre e la madre perdono completamente l’esercizio di responsabilità genitoriale. E se la sanzione peggiore per un medico coinvolto nella pratica sono i 10 anni di rimozione dall’albo, un ente o una struttura che permette tale pratica, invece, rischia una sanzione tra i 300 e i 700 euro e l’interdizione per un periodo non inferiore ad un anno. Di per sé, queste pene non sembrano così qualitativamente severe, di fronte ad una mutilazione inclusa nelle violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona. Basti pensare che questa disposizione è stata resa necessaria in quanto anche nel Bel Paese l’infibulazione è diffusa. Vari casi sono stati registrati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Puglia, Sardegna e nella provincia di Treno (ma questo non significa che nelle altre regioni il fenomeno sia assente). In base ad un monitoraggio del Ministero, tra il 2006 e il 2013 sono state contate ben 957 donne con genitali mutilati, 284 delle quali hanno fatto uso di un intervento di plastica ricostruttiva. Certo, l’infibulazione si può correggere, come accertato dai pareri di alcuni dei massimi esponenti mondiali in materia in un recente convegno al Teatro Regio di Torino. «Le donne pensano alla ricostruzione chirurgica non per ragioni estetiche – afferma Refaat B. Karim, chirurgo plastico olandese –, ma per tornare a sentirsi donne ed è questo il nostro obiettivo. Il trattamento è molto complesso e richiede un approccio condiviso in cui l’integrazione con altri specialisti è il cardine del successo».
C’è una Giornata Mondiale che ricorda la battaglia contro questa pratica tremenda: il 6 febbraio, denominata Internatiol Day of Zero Tolerance for Female Genital Mutilation. La condizione attuale di molte donne sparse per il mondo, però, è ancora disumana: basti pensare che circa 8.000 al giorno ne rischiano la pratica. E, come sottolineato prima, le motivazioni religiose non sono più l’unica ragione: oggi, l’usanza è diffusa indipendentemente dalla divinità in cui si crede. L’emersione e l’espansione di tale fenomeno deve essere contrastata attraverso leggi più severe: le attuali sanzioni sono fin troppo leggere in confronto ad un crimine che può portare a spezzare una vita. Ed evitiamo di trasformare questo tema in una nuova disputa sull’immigrazione: ci sono bambine e donne da salvare.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante