Il rapper statunitense Doug E. Fresh porta l’Hip Hop fra i banchi di scuola, con le rime è possibile conoscere l’ictus. I più giovani, grazie alle canzoni, apprendono i sintomi di una patologia per eventualmente soccorrere chi ne ha bisogno
Una canzone sul congiuntivo a Sanremo e Baglioni diventa un cult, non Claudio, Lorenzo che di magnifico non ha il cognome – inflazionato musicalmente e non solo – ma quantomeno il coraggio di riportare la cultura della lingua su un palcoscenico musicale. Non è l’unico, prima di lui ci arrivò Fiorello con la versione dance della “Nebbia agli irti colli”, che non nasce (soltanto) da un’idea di Claudio Cecchetto bensì dalla penna e l’estro di Giosuè Carducci. La musica è arte in grado di educare, non lo scopriamo oggi, gli americani, ad esempio, lo sanno da tempo e coltivano questo sentiero da un po’. Non è un caso se da noi ci si emoziona per un congiuntivo ben messo, mentre da loro – a colpi di rime (baciate e velenose) – si disfa il neopresidente Trump. Almeno artisticamente. Nello Stivale, sono sporadici gli esempi di cantautori che, di questi tempi, amano mettersi in gioco partendo da un ideale. Ancora meno son quelli che, come soleva dire Bertoli, amano “essere davvero impegnati sulla carne viva della società”. Quasi più nessuno “percepisce il cambiamento o lo anticipa”, sicuramente si contano sulle dita di una mano coloro che “si buttano nella mischia prendendosi dei rischi” con la faccia tosta di dire la verità. Quella che, ormai, purtroppo, non va più di moda. Non è mainstream.
Quindi, dobbiamo farci bastare i Caparezza di turno, in grado ancora di descrivere una società malata in un Paese schiavo del degrado, e rimpiangere (forse) Guccini pensando, però, che oggi il posto del cantautore l’ha preso il rapper. Sempre sulla scia del leitmotiv americano. Soltanto che al Made in Italy piace strafare e contaminare, quindi dieci Sfera Ebbasta non fanno un Fabri Fibra e, piuttosto che denunciare cantando gli scheletri nell’armadio che affossano una classe dirigente, si preferisce parlare di “selfie mossi” per “andare a comandare”. In nome delle visualizzazioni, il nuovo nomenclatore del successo. Dunque, bisogna avere Fedez – come atto di rassegnazione – verso una “Generazione Boh”. Mentre in casa nostra ci chiediamo ancora, senza avere risposte precise, dove certe influenze musicali possano arrivare e, soprattutto, quale potrebbe essere il loro fine ultimo, la società yankee ha provato a dare risposte convincenti.
Dopo aver dato il via alla cultura Hip Hop, che con l’ausilio di quattro arti complessive descriveva gli ultimi (destinati a rimanere tali per una società tendente all’esclusione), l’ha resa un movimento internazionale. Infatti, le suggestioni nate a Sedwick Avenue – ora Hip Hop Boulevard – negli anni Ottanta sono una realtà che cammina, si espande e semina emozioni. Da Grandmaster Flash a Eminem: facce della stessa medaglia, figli di un unico credo che è arrivato sino alle soglie del primo ventennio targato Duemila. Nell’epoca dei nativi digitali, l’Hip Hop difende ancora le minoranze e, in particolar modo, educa le coscienze laddove nessuno osa spingersi. La musica coinvolge ed aggrega nella maniera più spontanea possibile, facendo breccia nel cuore dei più piccoli. Proprio i bambini sono i nuovi vettori di questo movimento culturale: col rap, ora, si può riconoscere l’ictus. Non è follia, ma ambizione. Quel tassello in più in un universo vastissimo.
L’idea è venuta a Doug E. Fresh, rapper statunitense, che ha tradotto in rime, le quali hanno costruito “barre” – come direbbero gli addetti ai lavori –, i sintomi dell’ictus. Una hit entrata subito nelle teste e nelle orecchie dei più giovani che, quindi, loro malgrado, hanno imparato immediatamente a riconoscere una patologia. Cultura porta altra cultura. Musica e medicina, la terapia migliore. I benefici sono stati immediati, riconoscere e prendere in tempo l’ictus diverrà consuetudine: al pari di un beat sulla traccia. Il progetto “Hip Hop stroke”, finanziato dal National Institute of Neurological Disorders and Stroke del National Institutes of Health, ha coinvolto più di tremila studenti in ventidue scuole pubbliche di New York. Nei più piccoli, la conoscenza dell’ictus è passata dal 2% al 57%, subito dopo il “training” didattico. E per il riconoscimento dei segni dell’ictus, la preparazione dei genitori è aumentata dal 3% al 20%. Tra gli studenti, poi, quattro si sono trovati a sperimentare nella realtà, indirettamente, l’ictus e hanno messo in pratica quanto appreso durante il programma educazionale. La street credibility arriva fra i banchi di scuola e si distingue per efficacia, una lezione in più nell’ennesima pagina di storia che parte dall’America e arriva fino ai nostri confini. Nelle classi, come per le strade e nella vita, c’è bisogno di esempi da seguire. Le note, con mille sfumature, ne rappresentano alcuni.
Articolo di Andrea Desideri