Indagine di Antigone sulla condizione dei detenuti. Inclusi quelli con disabilità
Lucia Romani
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così recita l’articolo 27 della Costituzione ed è proprio sulla condizione dei reclusi che Antigone si basa per redigere un report.
Antigone è un’associazione politico-culturale “per i diritti e le garanzie del sistema penale”, nata a fine anni Ottanta, a cui aderiscono magistrati, cittadini e operatori penitenziari.
Nel xv rapporto stilato dall’associazione, in riferimento al 2019, risulta che sono circa 60mila i detenuti (circa 3mila donne e poco più di 20mila gli stranieri), quasi 10mila in più rispetto ai posti letto disponibili con il +120% dell’affollamento.
Dal 1998 ad oggi si assiste a un aumento esponenziale dei detenuti (da 48mila a 60mila) dovuto alla riduzione delle “porte girevoli” (legge 199 del 2010), che prevede la diminuzione della permanenza in carcere per chi ha commesso un reato di non particolare gravità ed è in attesa della convalida della pena.
Sempre da quanto riportato da Antigone, in Italia sono aumentati i reati e il tasso di sovraffollamento: 115% contro la media europea del 93%, dovuto alla maggior presenza nelle carceri poiché molti detenuti sono senza una condanna definitiva, il che innalza l’età anagrafica dei reclusi, la cui prevalenza supera i 40 anni (il 38% invece ha un’età media compresa tra i 18 e i 39).
Nel nostro Paese le regioni che hanno il maggior numero di detenuti sono la Lombardia, la Campania, il Lazio e la Sicilia, anche se va segnalata la Puglia per il tasso di sovraffollamento pari al 160,5%.
Proprio a causa di questo numero crescente di detenuti, nel 2013 la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia (sentenza Torreggiani) per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (Cedu) riguardo a dei trattamenti degradanti subiti da 7 persone nelle carceri di Busto Arstizio e Piacenza in celle triple e con meno di 4 mq a testa.
Successivamente alla pronuncia della Cedu, in Italia si è osservato che esiste una correlazione tra il sovraffollamento e l’uso della custodia cautelare come strumento di prevenzione, che è in contrasto con l’articolo 27 comma 2 della Costituzione, che impone che le misure cautelari non anticipino la pena e l’inviolabilità delle libertà personali.
In base alla durata della pena da scontare, sono diverse le forme restrittive, che vanno dal domicilio (legge 199/2010) se la condanna è inferiore ai 18 mesi fino alla reclusione (inferiore ai 3 anni), passando per l’affidamento ai servizi sociali (decreto 146/2013) se la pena è superiore ai 4 anni.
Si potrebbe ridurre il sovraffollamento attraverso l’utilizzo dei braccialetti elettronici, come previsto dal decreto legge 146/2016, che garantirebbero un controllo anche al di fuori dei penitenziari. L’unica pecca è che attualmente sul territorio nazionale ce ne sono circa 2mila, anche successivamente a una gara d’appalto indetta dal Viminale e vinta da Fastweb, che prevede la consegna di 1.000 dispositivi elettronici al mese. Ma ad oggi non è stato introdotto alcun dispositivo (fonte: Antigone.it).
Un altro dato allarmante arriva dalla sanità penitenziaria, che nonostante la riforma del 2008 e il passaggio della gestione alle Asl di competenza, è applicata in modo disomogeneo nel nostro Paese. Ovviamente l’ambiente gioca un ruolo importante, infatti le celle stesse risultano troppo piccole e non garantiscono la tutela della privacy (in realtà lo spazio a disposizione per ogni detenuto è fissato a 3 mq a testa); inoltre c’è una scarsa fruibilità dell’acqua, che comporta un’insufficiente igiene personale e il conseguente aumento di virus ed infezioni, in molti istituti sono presenti esclusivamente delle docce da fare a turnazione con i locali che mostrano muffa (Torino e Secondigliano) e addirittura manca il riscaldamento.
In aggiunta, gli spazi comuni che permetterebbero la socializzazione e di svolgere delle attività formative, lavorative e culturali sono carenti, a causa dei limiti strutturali degli edifici, come ad esempio l’accesso alla palestra o anche l’attività fisica all’aperto (consentita solo nel 28% degli istituti).
Sommando fattori come la sofferenza, la deformazione del tempo e l’assenza di comunicazione, si nota che i detenuti sviluppano una patologia mentale (schizofrenia, disturbi della personalità e disturbi bipolari) spesso accompagnata da un abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti.
Questi pazienti sono seguiti dal Centro di Salute Mentale (CSM), che utilizza un percorso terapeutico personalizzato attuato, in seguito, dagli operatori del Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, come previsto dalla legge 9/2012 e la legge 81/2014), che ha portato alla chiusura definitiva degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), che applicano il percorso in base al reato e alla pericolosità sociale.
E i detenuti con disabilità?
I detenuti con disabilità rappresentano una porzione fragile e poco compatibile con la carcerazione, a causa dello stato di salute e della mancanza di strutture ed operatori. Secondo l’ultimo monitoraggio di Antigone, che risale al 2015, in Italia ci sono circa 628 detenuti con disabilità, dei quali 345 in strutture non attrezzate e 283 ospitati in sezioni compatibili, ma il 30% non accede ai servizi proprio per la mancanza di strutture idonee.
Il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ha lo scopo di garantire i diritti, migliorare le condizioni detentive, la formazione, l’assistenza sanitaria e limitare le barriere architettoniche. Proprio con la circolare del 22 gennaio del 2015 risulta un adeguamento degli spazi detentivi grazie alla realizzazione di percorsi e varchi che rendono accessibili autonomamente sia i servizi igienici che l’istituto.
In Italia vanno segnalate due strutture, simbolo dell’eccellenza: Bari e Parma.
L’istituto di Bari, nato nella sede Sai (Servizio di assistenza integrata) è sviluppato su 3 piani, 2 dedicati alla degenza di paraplegici o persone con disabilità motorie e uno adibito come ambulatorio diagnostico con stanze per la fisioterapia e fisiokinesiterapia.
La struttura di Parma, inaugurata nel 2005, presenta delle celle ampie, ricavate dall’unione di due stanze e i bagni sono attrezzati e adattati. I locali sono climatizzati e nel cortile è presente una palestra con una piscina, purtroppo mai entrata in funzione dal passaggio di gestione alle Asl.
Il Dap, inoltre, punta sulla formazione degli operatori e dei detenuti come caregivers. Proprio nel 2015 a Bari è stato istituito un progetto in convenzione con l’AOUC Policlinico di Bari, dove sono stati formati 80 detenuti (16 stranieri), i quali hanno acquisito le competenze per prendersi cura in modo professionale dei loro compagni, ricevendo anche un attestato come OSA (Operatore Socio Assistenziale).
Una bella iniziativa, come riportato da Superabile.it, è presente a Milano, dove i detenuti con disabilità sono 95 (52% motoria, 27% psichica e 21% mista), quando due anni fa è nato un progetto di inclusione socio-sanitaria e lavorativa realizzato dal Consorzio Sir, grazie alle risorse del programma operativo regionale e al fondo sociale europeo con il nome “Gli Invisibili”.
Questo progetto ha come obiettivi quello di realizzare dei tirocini lavorativi part-time di tre mesi presso le Cooperative del Consorzio (riguardanti la manutenzione del verde e la pulizia), creare dei laboratori di agricoltura sociale e artigianato artistico per i detenuti disabili ed avviare dei percorsi di accoglienza temporanea in appartamenti protetti con personale specializzato.
Sul fronte giudiziario, invece, è stata introdotta una grande novità. Secondo Il Messaggero, lo scorso 14 febbraio la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18, ha stabilito che le donne con grave disabilità possono scontare la pena agli arresti domiciliari, considerata la particolare condizione fisica e psichica delle persone più fragili, sempre che per il giudice esse non rappresentino un pericolo per la sicurezza pubblica.