Giulio è un ragazzo con autismo non verbale di 14 anni e frequenta la terza media ad una scuola di Livorno. Una mattina come tante, il giovane si è recato nella sua aula per seguire le consuete lezioni. Però la classe non era presente, in quanto in gita senza di lui ed il suo insegnante di sostegno. La sua storia è stata raccontata dall’Associazione Autismo Livorno Onlus che, attraverso Facebook, ha pubblicato il seguente post: “La mia classe oggi è in gita; io no! Nessuno ha avvertito la mia famiglia, quindi sono andato a scuola e mi sono trovato da solo. Peccato, mi sarebbe piaciuto molto passare una giornata all’aria aperta, mi piace molto il pullman. Ci sono rimasto molto male, ma non potendo esprimermi a parole, sembra che a quel qualcuno non importi. Che faccio, ringrazio qualcuno per avermi risparmiato da una serie di emozioni bellissime che avrei potuto provare, oggi, in gita con i miei compagni all’aria aperta?”. La scuola ha giustificato l’accaduto sottolineando come già in passato Sandra Biasci, la madre di Giulio, avesse concordato assieme all’insegnante di sostegno a quali precedenti gite il figlio potesse andare, a seconda delle sue potenzialità, e quindi dando per scontato che quest’ultima non fosse idonea per il ragazzo.
Il fatto ha suscitato enorme scalpore, il mondo del web si è immediatamente scagliato contro l’accaduto: nei vari social network sono apparsi selfie e fotografie di persone raffigurate insieme a fogli bianchi con su scritto Io sono Giulio, tramutato immediatamente nell’hashtag #IoSonoGiulio. Il caso, oltre che virale, è diventato mediatico: ad esempio, ad Uno Mattina sono intervenuti alcuni referenti dell’Associazione sopra citata e la madre di Giulio. Come nei casi #IceBucketChallenge e #VorreiPrendereIlTreno, la condivisione diventa un’arma potente di denuncia sociale. #JeSuisCharlie insegna, #IoSonoGiulio diventa il nuovo marchio del giorno. Si, marchio del giorno perché c’è una domanda che in tali circostanze aleggia nell’aria: oggi io sono Giulio, ma domani chi sarò? Mi ricorderò di questa tematica oppure la mia coscienza sociale resterà pulita dopo un semplice post sul mio profilo virtuale? Facebook, Twitter, Instragram e altri social network sono diventati protagonisti per aver portato alla luce casi simili, ed è forse il migliore utilizzo che ne possiamo fare. In questo contesto però, nel quale ci troviamo dotati di un grande potere – la condivisione – che può fare realmente la differenza, decretiamo indignazione quando vogliamo. Probabilmente è perché la tematica ci si interessa in parte, si commenta tra sé e sé, forse non conoscendo realmente l’argomento – in questo caso, l’autismo e l’integrazione sociale. E poi basta. Si lascia perdere l’accaduto, passeggero seduto con altre vicende nella carrozza del dimenticatoio.
Non fa parte della nostra cultura indignarci sempre per questi atti, nonostante siano all’ordine del giorno. O più nello specifico, non siamo interessati ai fatti inerenti al mondo della disabilità. Siamo lì inermi, pronti forse a parlare di questa situazione semplicemente perché esiste nelle sua differenza sporadica, e non lo includiamo nell’immaginario quotidiano – come la scuola che ha dato per scontato la non idoneità di Giulio alla gita. Badate bene: non si vuole denigrare il fenomeno #IoSonoGiulio. E’ un bene che se ne parli, è un bene che la vicenda trovi condivisione. E’ un bene che le Associazioni utilizzino i nuovi mezzi consapevolmente. Sarebbe bene però che in questi casi ogni utente del web li utilizzassero consapevolmente, e non per mera popolarità. Ma non sempre storie simili trovano spazio nell’intricato universo dei social network.
E’ di qualche settimana fa la notizia di una ragazza tredicenne autistica di Legnano esclusa dalla gita di classe a Mauthausen (Austria) perché nessuno dei suoi compagni voleva dormire in stanza con lei. A riportare il fatto è stata la madre della bambina che, in un’intervista a Corriere.it, ha spiegato come questa discriminazione sia avvenuta alle spalle della figlia, attraverso messaggi privati su WhatsApp, e come i genitori degli altri alunni non abbiano risposto alle sue esortazioni di chiarimento. Risultato? La ministra dell’Istruzione Stefania Gannini ha annullato la gita a tutta la classe della terza media. Ma nessuno si è proclamato contro la vicenda in un particolare hashtag.
Se volessimo andare più indietro nel tempo, nel 2014 emerse la storia di Sara Bortoletto, al tempo ragazza della quinta superiore del Liceo Artistico “Michele Fanoli” di Cittadella. Come ogni anno, era arrivato il periodo del viaggio d’istruzione e stavolta la meta scelta era Parigi. Per risparmiare, la classe voleva utilizzare come mezzo di trasporto il pullman, ma per Sara, costretta da cinque anni su una carrozzina, era un problema, non essendo adibito alle sue esigenze. Bisognava cambiare mezzo, ma non tutta la classe era d’accordo. Così, anche in questo caso, cominciarono tra gli alunni conversazioni private tramite WhatsApp alle spalle di Sara. La ragazza però intercettò la posizione dei compagni e denunciò il tutto su Facebook. Non nacque però nessun #IoSonoSara, o un semplice #Sara. Lo sdegno del web non si fece trovare.
Questi fatti sono dei più lievi, se confrontati con altri. A Roma, tra il 2009 e il 2010, un bambino autistico di 6 anni fu ripetutamente oggetto di violenze fisiche da parte di una maestra, la quale minacciò gli altri allievi presenti in classe di non dire nulla ai genitori. Il 12 Giugno 2015 la maestra, Mara Felici, fu condannata a due mesi di carcere per abuso di mezzi di correzione, nonostante i suoi comportamenti violenti abbiano causato al bambino uno “stato fobico ansioso”, guaribile in 40 giorni. Neanche qui nessun fenomeno social di risentimento. D’altronde, in quel periodo, il topic del momento fu l’accusa di una nota speaker radiofonica ai giornali italiani di parlare troppo dell’astronauta Samantha Cristoforetti. E giù con #Samantha in quel caso. E ancora, a Velletri, in un istituto alberghiero, un’alunna con disabilità subì violenze da quattro suoi compagni di classe. La maestra, presente sul fatto, non intervenne a soccorrere l’allieva, nonostante le grida di quest’ultima. La docente, Elena Agliotti, venne sospesa per 20 giorni e il suo stipendio dimezzato. Anche qui il mondo dei social restò muto a guardare di fronte al magro e discutibile risultato delle varie sentenze. E via, tutto resta nell’oblio.
Ci indigniamo quando fa comodo, quando è più facile far crescere il dissenso e ottenere una popolarità giornaliera. Non importa se conosciamo o meno l’argomento. “Deve cambiare la cultura” afferma Claudia Leone, Consigliere con delega rapporti con amministrazione comunale dell’Autismo Livorno Onlus alla Rai. E non ha tutti i torti. Prendiamo ad esempio la ricerca sociologica sull’#IceBucketChallenge pubblicata su questo sito nel novembre 2015: da quei dati, venne alla luce che in pochissimi conoscevano chi avesse promosso quell’hashtag, ancora meno le persone che sapevano il significato dell’acronimo SLA. L’importanza data fu più per la visione della secchiata che alla conoscenza della malattia in sé. A mancare fu il passo successivo di approfondimento della tematica. Come per il caso di Giulio.
La cultura deve cambiare, la nostra sensibilizzazione a queste tematiche deve cambiare. Anche perché chi ci va di mezzo è il nostro futuro, quei bambini che, a livello scolastico, non riceveranno mai un’educazione improntata sull’inclusione sociale. Basti pensare che il Report Istat del 19 dicembre 2014 indicava che gli alunni con disabilità erano aumentati, ma non le ore di sostegno, definite poche e poco funzionali ad una piena accessibilità scolastica, condizionata negativamente anche dalle gite scolastiche. Dunque, se sappiamo che non è il primo caso di noncuranza nei confronti dell’integrazione, perché oggi siamo Giulio, ma ieri non lo eravamo? E domani? Ci interesseremo ancora alla questione? Approfondiremo mai in un secondo momento queste situazioni? O aspetteremo che un nuovo caso da social network scoppi giusto per parteciparvi? L’ipocrisia da social network non fa bene a nessuno. Un plauso a chi utilizza questo mezzo per denunciare ogni giorno una mancanza sociale. Senza di loro, senza Autismo Livorno Onlus, casi come quello di Giulio non sarebbero mai emersi. Nessun encomio invece per chi, preso dalla foga dell’hashtag del momento, pubblica una foto per finta solidarietà e vera ricerca della popolarità del momento.
In questa situazione non bisognerebbe fermarsi alla facciata, ma approfondire la tematica. Giulio non è il primo caso, e non sarà neanche l’ultimo. Cosa c’è che non va nella scuola italiana? Perché ancora oggi non siamo in grado di garantire una piena integrazione alle persone con disabilità? La cultura deve cambiare. Perché se per un giorno si è vicini a queste tematiche, per gli altri 364 vige un’ignobile insofferenza. Esservi vicini per un solo giorno non renderà migliore il nostro animo, e di certo in futuro non permetterà ad un altro Giulio di andare in gita.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante