La legge comunitaria è uno strumento di ricezione delle norme giuridiche dei paesi appartenenti all’Unione Europea. O per lo meno, a livello formale, lo era. Già, perché la legge n. 234 del 24 dicembre 2012 ha diviso in due quella ordinaria: ora ci sono la legge europea e la legge di delegazione. La prima contiene disposizioni modificative o abrogative di norme statali in contrasto con gli obblighi europei, cioè cambia ciò che di sbagliato è stato fatto in passato. La seconda conferisce le deleghe legislative al governo per far recepire le direttive Ue nell’ordinamento del paese comunitario (ad esempio, l’Italia), quindi implementa ciò che c’è di nuovo. La creazione di questa bipartizione nasce dall’esigenza di velocizzare i tempi di approvazione dei vari ordinamenti europei ed evitare le infrazioni. Lo scopo rimane identico: assicurare il rispetto degli obblighi derivanti dall’applicazione delle norme comunitarie.
INFRAZIONI E COSTI – Cosa succede quando un membro dell’Unione Europea non applica o non recepisce in tempo le disposizioni comunitarie? Innanzitutto, esistono tre fasi grazie alle quali la Commissione europea o uno stato Ue può avviare una procedura di infrazione nei confronti di un altro paese aderente: la pre-contenziosa, una lettera di messa in mora in cui il paese coinvolto ha due mesi di tempo per rispondere alle accuse di infrazione; la giurisdizionale, che dà la possibilità di conformarsi entro il termine prefissato dalla Commissione, prima che questa proponga un ricorso per inadempimento alla Corte di Giustizia europea; infine, se il diretto interessato non adempie ai provvedimenti necessari per rispettare la sentenza, la Corte può imporre una sanzione pecuniaria. Arriva una multa, per capirci. In questo contesto – neanche a farlo apposta -, l’Italia vince la maglia nera per infrazioni in merito alla ricezione delle direttive e norme europee: a fronte dei dati pubblicati da Openpolis, alla fine del 2014 il Bel Paese si piazzava in cima per 89 casi di violazione e/o recepimento tardivo del diritto Ue (a giugno 2016 siamo già a 82). Come noi solo la Grecia, arrivata però seconda per via del numero maggiore di procedure pendenti per violazione del diritto Ue da parte del governo tricolore: per l’esattezza, 1347 casi, di cui 322 (23,90%) riguardano l’ambiente e 223 (16,56%) la mobilità ed i trasporti.
Come dicevamo in precedenza, tutto ciò ha un costo. Per l’Italia, enorme. Sempre con gli occhi rivolti ai numeri di Openpolis, dal 1952 al 2015, il paese verde-bianco-rosso è il membro europeo che è finito più volte davanti alla Corte di Giustizia europea, con ben 642 ricorsi per inadempimenti (detiene il 16,77% sul totale). In termini finanziari – e facendo un esempio concreto -, le attuali 4 procedure d’infrazione aperte (in materia di emergenza rifiuti, ambiente, lavoro e recupero delle imprese), ha portato ad un totale di oltre 180 milioni di euro in sanzioni. Cifre che lo Stato Italiano paga attraverso i soldi dei cittadini. In questo contesto, viene da interrogarsi su come lo Stivale si comporti di fronte alle direttive europee di carattere sociale, più precisamente attorno la disabilità.
MOBILITÀ – L’accessibilità è uno degli argomenti più discussi nella nostra società. Tanto che la Commissione Trasporti della Comunità Europea per la normativa sul trasporto dei disabili ha adottato tre procedure di infrazione in materia contro l’Italia, che non rispetta i diritti dei passeggeri con disabilità, nonché la tutela degli stessi. A confermarlo sono le recenti percentuali pubblicate da Eurostat: il 51,45% delle persone con disabilità incontra ostacoli e difficoltà per l’utilizzo dei mezzi pubblici (contro il 31,65% della media europea); più in generale, il 66,18% si imbatte in barriere architettoniche di vario tipo (Ue: 52,89%). A Roma, qualche mese fa, partì un referendum popolare per contrastare la candidatura della Capitale alle Olimpiadi 2024, sottolineando proprio la scarsa accessibilità della città per le persone con disabilità. Non ci credete? Chiedetelo ai colleghi de L’Espresso, la cui inchiesta ha rivelato quanto la costosa metro C sia totalmente inaccessibile per chi siede su una carrozzina.
LAVORO – Solo tre anni fa, l’Italia veniva bocciata in merito alle norme sull’inserimento delle persone con disabilità nel mondo del lavoro. La Corte di Giustizia europea aveva stabilito che il nostro paese non avesse applicato in modo completo i principi comunitari in materia di diritto al lavoro per le persone con disabilità. In seguito a questa segnalazione, la FISH mostrò elementi a dir poco chiarificatori: solo il 16% delle persone con disabilità tra i 15 e i 74 anni era occupato, l’11% del quale dichiarava di aver trovato un’occupazione avvalendosi del Centro pubblico per l’impiego. Nel 2014 questa condizione veniva sottolineata nuovamente dal documento europeo Situation of people with disabilities in the EU, pubblicato il 2 dicembre dello stesso anno – in riferimento ai dati di Eurostat 2011 -, il quale confrontava l’occupazione delle persone con disabilità nei diversi paesi (geograficamente) europei: l’Italia veniva surclassata da nazioni come Austria, Finlandia, Lettonia e Portogallo, quando ancora il Jobs Act non era in vigore. Anche se, ad inizio 2016, alcune associazioni hanno chiesto alla Commissione europea di aprire una procedura di infrazione nei confronti del governo italiano contro la nuova riforma del lavoro, rea di discriminare le persone portatrici di disabilità più gravi. Una situazione meno rosea e più nera per l’inclusione sociale.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante