In ufficio, all’aperto, determinato, indeterminato, appassionante, ripetitivo, necessario, stimolante; a progetto, stagionale, fisso, saltuario e persino mancante. Così può essere definito il lavoro, una necessità, l’obiettivo da raggiungere per avere indipendenza e possibilità sociali. Avere un impiego può voler dire l’inizio di una nuova fase, significa fare progetti di vita, magari partendo proprio da quelli che un tempo erano semplicemente sogni.
Un’occupazione non è mai un punto d’arrivo, concettualmente, è qualcosa da cui partire. Non per tutti, c’è anche chi da quei gesti su cui ha costruito responsabilità e routine può venir tradito. Una svista, un errore, un intoppo al momento sbagliato, quel bullone che era sempre messo in quell’ingranaggio così oliato potrebbe saltare in un attimo ed, allora, i meccanismi fatti per troppo tempo – quasi scontati – si inceppano fino a dover pagare un prezzo troppo alto. Sì può perdere la vita per un imprevisto, un rischio non calcolato, o peggio, un aspetto sottovalutato. Le morti bianche sono tasselli opachi su un cammino inesorabile che si compie giorno per giorno. Morire sul proprio posto di lavoro, a seguito d’incidenti, è una piaga sociale che l’Italia da tempo sta cercando di arginare. A confermarlo è l’Osservatorio di Sicurezza sul Lavoro, il quale sottolinea attraverso una statistica quanto questo fenomeno sia in diminuzione, tuttavia le cifre sembrano essere comunque allarmanti. Sebbene, infatti, i morti sul lavoro siano in calo (651 quest’anno contro i 752 dell’anno scorso), la media resta sulle 80 vittime al mese che diventa una cifra preoccupante, soprattutto se consideriamo che settimanalmente si arriva a toccare i 20 infortuni mortali. Volendo fare una divisione per aree geografiche, al nord la regione più colpita dalle morti bianche è l’Emilia Romagna con 56 infortuni mortali registrati nei primi sette mesi del 2016, subito dopo ci sono il Veneto e la Lombardia con le loro 44 vittime. Spostandoci al centro, invece, Roma è la testa di serie del dramma provinciale e regionale con 19 vittime registrate. Infine, il sud Italia continua a registrare il dato più inquietante per quanto concerne l’incidenza della mortalità rispetto alla popolazione lavorativa: 28.2% per milione di occupati, contro una media nazionale del 18.6%. Se guardiamo i settori d’impiego, allora, possiamo dire che nello Stivale si muore più facilmente facendo il muratore. Non ci voleva uno scienziato per capire che il settore delle costruzioni è quello che registra il maggior numero di vittime con 50 casi, mentre si classificano al secondo posto le attività manifatturiere con 46 decessi.
IMMIGRATI E OCCUPAZIONE – Gli stranieri rappresentano un’importante “risorsa” per quanto riguarda la manodopera nazionale: sono tanti, disponibili e desiderosi di un impiego a qualsiasi costo. Per questo, accettano anche di essere sottopagati e sfruttati. Quindi, quando i controlli latitano e manca una vera e propria tutela sociale oltre che sanitaria, gli extracomunitari possono morire come mosche sotto un silenzio collettivo. Quelli deceduti da gennaio a luglio 2016 sono 62, il 14.9% del totale, di cui 27 donne. La fascia d’età maggiormente colpita è quella compresa tra i 45 e i 54 anni. Tuttavia, l’incidenza più elevata colpisce sempre coloro che hanno oltre i 65 anni.
Susanna Camusso ha dichiarato: “I morti sono tutti uguali, italiani o cinesi, clandestini o regolari, ogni volta che c’è un incidente, ogni volta che si muore per il lavoro, per noi è una sconfitta”. Allora, cifre alla mano, occorre continuare sulla strada dell’inclusione e della legalità. Attraverso contratti adeguati, controlli serrati e condizioni di lavoro dignitose, per tutti. Dietro questi numeri ci sono persone: madri, padri, che potrebbero lasciare figli o compagni dopo aver chiuso la porta di casa. Potrebbero non tornare più a causa di un intervento su un pantografo restando folgorati, come è successo ad Antonio Alleovi (54 anni, elettricista dell’azienda di trasporto romana), oppure morendo schiacciati tra un rullo e un nastro trasportatore come è successo a Giacomo Campo (25 anni) nello stabilimento Ilva di Taranto. Nomi, numeri, che cambiano storie e stravolgono vite: quelle di chi resta a cercare un perché.
Articolo di Andrea Desideri