Dopo gli attentati di Parigi, nel mondo occidentale si sono riaperte le vecchie ferite create l’11 settembre 2001 e scrostate all’inizio di quest’anno con i fatti riguardanti Charlie Hebdo. Le conseguenze – militari, politiche e culturali – sono sotto gli occhi di tutti, non solo da quanto traspare dai notiziari dei diversi mass media. A Roma, ad esempio, la situazione di tensione è vissuta con insopportabile paura, sfociata in falsi allarmi denunciati ormai ad ogni giro d’ora. A questo però va aggiunta una silenziosa e marginale conseguenza, difesa concettualmente con la frase circostanziale “io non sono razzista, ma…”. Infatti, un qualsiasi pendolare delle metropolitane romane potrà constatare una realtà divenuta troppo diffidente nei confronti degli stranieri: ad esempio, se a salire su una metro è un essere umano con caratteristiche prettamente africane, arabe o mediorientali, i passeggeri guardano lo stesso con occhi torvi, d’allerta e di circostanziale timore. Insomma, se molti sottolineano l’esistenza di quella che viene definita la Terza Guerra Mondiale, qui possiamo ipotizzare la presenza di una concettuale battaglia stereotipata sull’etnia, nata dalla paura e dall’odio razziale ingiustificato.
Questa tematica rimbalza sempre più prepotentemente nel tema dell’immigrazione, ormai arma politica e giornalistica di tutti, nella quale spesso le differenze sostanziali tra cultura, religione e Isis vengono mischiate (per approfondire la tematica, cliccare qui). Ogni attacco rivolto ad un paese americano/europeo viene ormai ipotizzato fin da subito di matrice jihadista, alimentando la paura che all’interno dei barconi proveniente da Africa e Medio Oriente possano risiedere solo persone affiliate a cellule terroristiche.
La situazione si fa sempre più delicata, anche culturalmente parlando. Il rischio è quello del cascare nel becero razzismo e i media non sempre aiutano a districarci oggettivamente nella matassa di informazioni che riceviamo. Peraltro, notizie decise da un agenda setting in cui in cima troviamo sempre e solo le parole terrorismo e stranieri - incentivando l’immagine del mondo islamico, arabo e mediorientale come figura principe del terrore, come alcuni quotidiani italiani hanno cercato di diffondere attraverso titoli ampiamente discutibili. A questo punto, il tema dell’immigrazione diventa sempre più difficile da argomentare. E’ bene quindi affidarci all’argomento usando dati e statistiche, che ci possono aiutare a capire se in questi anni l’Italia abbia lavorato per evitare ogni genere di discriminazione sociale, favorendo invece inclusione ed integrazione.
Openpolis - osservatorio civico sulla trasparenza della politica italiana -, in collaborazione con ActionAid, ha pubblicato il 14 settembre 2015 un interessante minidossier dal titolo Immigrazione, il giorno dopo (scaricabile qui): un’indagine sociale sull’inclusione scolastica e lavorativa degli stranieri nel Bel Paese, con riferimento agli anni 2013 e 2014.
L’approfondimento apre mostrando la situazione generale degli anni presi in considerazione. Il numero di migranti sbarcati sulle cose italiane è passato da 40.000 a oltre 170.000 (fonte: Frontez e il Ministero dell’Interno), un dato che sottolinea l’esistenza di una vera e propria crisi umanitaria. Inoltre, il documento tende a specificare che “l’Italia è un paese di immigrazione relativamente giovane e solo negli ultimi anni la cosiddetta seconda generazione è diventata una realtà consolidata”. Nonostante la sua giovane età, attualmente sono quasi 5 milioni gli stranieri residenti nel nostro Paese (8% del totale della popolazione), presenza quadruplicata negli ultimi 10 anni e concentrata nelle regioni del Centro-Nord (si va dal 2,5% della Sardegna al 12% dell’Emilia-Romagna). Le nazionalità presenti sono ben 190: si va dalla comunità più grande, quella rumena con oltre 1 milione di persone, seguita poi da quella albanese, marocchina cinese e ucraina (link immagine).
LAVORO - Nel 2014 in Italia la percentuale di forza lavoro straniera superava il 10,40% (oltre la media dell’Unione Europea, 7,07%). Il nostro paese ricopre l’ottava posizione della classifica, superata da Lussemburgo (50,74%), Cipro (19,52%) e Irlanda (15,14%) – rispettivamente al primo, secondo e terzo posto -, e davanti alle potenze del vecchio continente come Regno Unito (9,7%), Germania (9,3%) e Francia (5,30%). Negli ultimi 10 anni, soprattutto a causa del continuo sbarco di immigrati, la percentuale di lavoratori non italiani sul totale della forza lavoro è più che raddoppiata, con un dato iniziale nel 2004 che superava di poco il 4% – se teniamo conto delle differenze regionali, con una percentuale che passa dal 5,3% del Mezzogiorno al 13% di Nord-Est e Centro.
Diversi i settori specifici nei quali la manodopera straniera è circoscritta: agricoltura e costruzioni sono i lavori più tipici dei non italiani, raggiungendo rispettivamente il 14,20% e il 16,67%. Il top viene raggiunto dalle mansioni relativi ad Altri servizi collettivi e personali, con il 31,3% (link immagine). A questi dati va aggiunto un assottigliamento tra tasso di occupazione dei lavoratori stranieri extra-Ue e italiani: nel 2006 i dati rispettivamente riguardavano il 66% e il 58%. La progressiva riduzione del distacco è dipeso dalla crisi economica, che ha particolarmente danneggiato i nuovi stranieri: mentre la prima generazione infatti era esclusivamente composta da lavoratori, oggi andiamo incontro ad una realtà caratterizzata anche da studenti. Per quanto riguarda invece l’aspetto salariale, l’80% dei dirigenti italiani guadagna più di 2.000 euro al mese, a fronte del 58% dei pari livello di origine extra europea. E si tratta di un dato a scendere: se l’8,3% degli italiani guadagna più di 2.000 euro al mese, la percentuale per i lavoratori extra-Ue si ferma allo 0,6%. Non sussiste una parità di compenso a parità di lavoro.
SCUOLA – Anche qui gli alunni stranieri iscritti nel sistema scolastico italiano, con particolare attenzione alle scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado, risultano in costante crescita: dal 4% dell’a.a. 2005/2006, si è passati al 9% del 2013/2014. Sono ben 802.785 alunni stranieri ad essersi iscritti, di cui il 51,72% nato in Italia. Nonostante l’esponenziale crescita, le differenze nelle performance scolastiche con i colleghi italiani rimangono ampie. Il 36% degli alunni stranieri e l’11% di quelli italiani sono in ritardo sul percorso scolastico – un rapporto di 3 studenti ad uno. Dato analogo anche per l’uscita precoce dal percorso scolastico, scelto dal 34% degli alunni extra-Ue e dal 13% degli italiani.
Il mondo dell’università segue lo stesso trend negativo: l’Italia è il paese europeo con la percentuale più bassa di stranieri laureati (solo il 12,4%). Nel confronto europeo (la cui media si attesta al 32,3%) svettano invece Lussemburgo (58,6%), Polonia (53,7%), Irlanda (51,9%) e Regno Unito (51,2%). La Francia risulta 14esima (32,4%), mentre non ci sono dati disponibili per quanto riguarda la Germania (link immagine).
Infine, anche nella durata media del primo lavoro superiore a tre mesi per i figli di immigrati, l’Italia si attesta all’ultimo posto tra i paesi dell’Ocse, tra cui invece spiccano Regno Unito, Spagna, Germania e Portogallo (link immagine).
CONCLUSIONI – I dati presentati da Openpolis indicano un aumento di stranieri (sia europei che extraeuropei) non indifferente. Ciò che sussiste però è una disparità di diritti nei confronti degli stranieri, sia in ambito scolastico che lavorativo. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, come si evince dalle statistiche, la remunerazione salariale resta maggiore per gli italiani, mentre gli stranieri sono costretti a orientare le proprie ambizioni verso lavori definiti umili, meno di carattere dirigenziale. Inoltre, c’è da considerare quanto la crisi economica abbia condizionato anche la realtà lavorativa dello straniero, in calo nel mondo dell’occupazione, producendo un alto tasso di rischio di povertà ed esclusione sociale. Sempre riferendosi al minidossier, l’Italia è al settimo posto nella classifica apposita, con il 43,6% di persone straniere a rischio di povertà ed esclusione sociale (sopra a paesi come Germania, Regno Unito e Irlanda – link immagine).
Peggio l’inclusione scolastica. Se il ritardo nel programma scolastico per gli stranieri risulta superiore di ben tre volte quello italiano, anche gli ultimi posti registrati nel mondo universitario e nell’inserimento al successivo primo impiego sottolineano una forte carenza di integrazione sociale. E tutto questo incide progressivamente sui tipi di lavoro futuro a cui una persona, italiana o straniera, può aspirare, come mostra il grafico seguente (link immagine).
Dunque, l’Italia ha molta strada ancora da percorrere per esprimersi come paese ad integrazione scolastica e lavorativa nei confronti degli stranieri (europei/extra-Ue). Il dato più sconfortante che emerge è la netta disparità prevalente nelle possibilità di studio e scelta d’impiego, condizionata fortemente dal proprio status nazionale. A questo punto, urge una riqualificazione sociale basata sulla maggiore attenzione nei confronti di questa tematica, senza cascare in soliti, banali e inutili stereotipi popolani.