Perché un ristorante romano che vieta l’ingresso ai bimbini è un caso su cui riflettere? Ce lo racconta una nostra lettrice, di cui pubblichiamo qui di seguito la missiva.
Ha recentemente fatto scalpore il divieto d’ingresso, imposto da un ristorante romano, rivolto a bambini di età inferiore ai cinque anni, con tanto di cartello intimidatorio affisso alla porta del locale. A non volere i bambini è il ristorante La Fraschetta del Pesce, trattoria specializzata in piatti ittici, situata nel quartiere Portonaccio, alla periferia est della capitale. La foto del cartello affisso alla porta, che ritrae un bebè urlante e il divieto con la barra su passeggini e ovetti, si è rapidamente diffusa in rete, generando disappunto, sconcerto e disapprovazione fra alcuni naviganti dei social network.
Il proprietario del ristorante, che si chiama Marco ma ama farsi chiamare “Il Comandante”, giustifica l’interdizione sostenendo che seggioloni e passeggini creino ingombro nel locale intralciando il lavoro dei camerieri e ricusa le critiche di discriminazione puntando il dito contro la maleducazione dei piccoli avventori e la noncuranza dei loro genitori.
Ciò che più sconcerta è che fra i commenti di sdegno e di disapprovazione si innalzano le lodi eccitate di chi, invece, inneggia all’audacia del ristoratore, virtualmente eletto come paladino del diritto al mangiar tranquilli. Il discutibilmente rivoluzionario comandante avrebbe a loro avviso avuto il coraggio di mettere finalmente al bando i piccoli scocciatori e i loro accompagnanti, garantendo agli adulti senza prole la possibilità di pasteggiare in santa pace.
Del resto, ognuno a casa propria è libero di far entrare chi crede.
Fatti come questo potrebbero contrariare le menti più illuminate e ricordarci di boicottare un posto dalle politiche intolleranti che, in assenza di tanto scalpore mediatico, magari nemmeno avremmo mai conosciuto o frequentato: se in quel luogo io e i miei figli, nipoti o figli di amici, non siamo i benvenuti, ebbene, per un pranzo in famiglia ci rivolgeremo altrove. Tuttavia, limitarci ad etichettare questi episodi, nonché l’onda di sostegno virtuale che essi ricevono, come semplici espressioni di punti di vista e libere scelte abbracciate in nome di un diritto, quello cioè di godersi un pasto in tranquillità, rischia però di mettere in ombra quella che in realtà è la negazione di un diritto, quello cioè, per alcuni, di fruire di un esercizio pubblico.
Abituati a non disporre nei luoghi pubblici di fasciatoi o di bagni adattati e a vedere un seggiolone in un ristorante come un miraggio, i genitori hanno abbassato la soglia di ciò che, di diritto, si ritiene spetti ai loro bambini. Imbarazzati e messi in difficoltà, sono gli stessi genitori che non sono messi in condizione di educare i propri figli alla libertà. I futuri adulti di domani crescono così senza la sicurezza di poter – e dover – esigere ciò che di diritto gli spetta e allevare i nostri figli nei confini della discriminazione di certo non accresce la possibilità di creare una società appartenente a tutti e da tutti fruibile.
E’ per questo motivo che è dovere degli adulti, oggi, allarmarsi e indignarsi di fronte a quelle che altro non sono che prepotenze ai danni dei più deboli, ed esigere spazi accoglienti ed adeguati per tutti.
Lettera di Irene Tartaglia