La riflessione: il dibattito si concentra sull’opportunità di alcune domande rivolte ai caregiver. Sarebbe forse più interessante ascoltare le loro risposte
Ritengo doveroso premettere che questo articolo è frutto di considerazioni personali, che non rispecchia necessariamente la linea editoriale di questa pubblicazione e che non vuole rappresentare il punto di vista di nessuno, se non il mio. Mi sembra comunque interessante aggiungere qualche spunto di riflessione al dibattito sul cosiddetto “questionario della vergogna”.
Questi gli antefatti: recentemente vengono diffuse alcune pagine di un questionario rivolto alle caregiver e ai caregiver familiari dei Comuni di Roma e Nettuno. Scopo dei questionari era quello di valutare il peso del lavoro di chi si occupa di un proprio familiare con disabilità. Ciò che ha provocato un’ondata di indignazione da parte di alcuni giornali, utenti dei social media e della quasi totalità della comunità delle persone con disabilità, è la presenza all’interno dei questionari di alcune domande “scomode”: veniva richiesto di rispondere assegnando un punteggio da 0 (per niente) a 4 (molto) ad alcune frasi.
Queste sono le frasi che hanno maggiormente destato scalpore: “Sento che mi sto perdendo vita”, “Mi sento emotivamente svuotato a causa del mio ruolo di assistente”, “Mi sento in imbarazzo a causa del comportamento del mio familiare”, “Mi vergogno di lui/lei”, “Provo del risentimento nei suoi confronti”.
Ciò che ha scandalizzato i detrattori del questionario è la crudezza di queste affermazioni, a cui si chiede ai caregiver di dare o meno conferma. Frasi ingiuste, denunciano in tanti, che non fanno altro che stigmatizzare la malattia e la disabilità.
Tanto forte è stata l’ondata di proteste, che alla fine i “questionari della vergogna” sono stati ritirati.
Questione risolta? A mio parere, no.
Lo sgomento delle persone con disabilità è comprensibile: a chi farebbe piacere leggere nero su bianco che chi ci assiste vive il proprio ruolo con fatica, pena o addirittura risentimento? A nessuno, ovviamente.
Quello che, però, ho l’impressione che manchi all’interno del dibattito, è un punto di vista fondamentale, ovvero quello dei caregiver, i veri protagonisti della vicenda. Cosa ne pensano i prestatori di cura delle domande rivolte loro nei questionari di cui tanto si è parlato? Sono davvero così fuori luogo le frasi che vengono proposte?
Così non sembrerebbe, a sentire Daniela Myr, assistente sociale e counselor analista transazionale, che da anni si occupa del benessere delle caregiver e, di conseguenza, dei loro familiari malati. In un questionario dal titolo “Prendersi Cura di una Persona con Demenza”, Myr rivolge diverse domande alle proprie assistite e i risultati non lasciano dubbi: alla domanda “Quali delle seguenti emozioni, stati d’animo e sensazioni descrivono meglio la tua esperienza o il tuo vissuto come caregiver?”, le risposte più quotate sono “Stanchezza” (71,8%), “Preoccupazione” (66,4%) e “Ansia” (63,6%). E poi sì, c’è anche un 2,7% che risponde “Vergogna”.
“Chi non vive queste situazioni ha difficoltà a comprendere che queste sensazioni sono umane e nulla tolgono all’amore che si prova nei confronti del proprio parente malato“, commenta Daniela Myr.
Maura Peppoloni, psicologa e facilitatrice di gruppi di auto mutuo aiuto rivolti a persone con disabilità e loro familiari, non segnala da parte di questi ultimi episodi di risentimento nei confronti dei propri cari assistiti, ma di certo registra un senso di rabbia rispetto all’assenza di servizi sul territorio. Un senso di isolamento che ricorre in quasi tutte le storie dei prestatori di cura.
Così come racconta Stefania De Vero, caregiver da nove anni. Si occupa di sua madre, che ha perso la propria autonomia a causa della demenza. Molto attiva sul fronte dei diritti di chi vive la sua stessa condizione, ha fondato il gruppo Facebook “Caro caregiver, ti scrivo” con lo scopo di sostenersi reciprocamente. Non ha difficoltà ad ammettere che i problemi esistono e che sì, sono capitate situazioni in cui ha provato anche imbarazzo.
E per quanto riguarda il famigerato questionario? “Ci ho riflettuto e credo che non sia stato giusto ritirarlo – risponde De Vero – perché avrebbe potuto contribuire a far emergere le difficoltà che noi caregiver affrontiamo quotidianamente. Il governo, le istituzioni sono assenti, non siamo tutelate e necessitiamo di maggiore attenzione.
Più scaviamo sotto la superficie, insomma, e più emerge un mondo sconosciuto, fatto di uomini e soprattutto di donne, che vivono in solitudine la propria condizione di prestatori di cura, sacrificando spesso la propria vita lavorativa e sociale. Persone a cui nessuno finora ha chiesto come stessero, quali problemi avessero e come si potrebbe aiutarle. Difficile conoscere le risposte, perché le domande non piacciono.
A proposito, sarebbe interessante scoprire come uno strumento di lavoro interno, che avrebbe dovuto essere custodito negli uffici dei servizi sociali comunali, sia finito tra le pagine dei giornali, alimentando indignazione e polemiche. Non resta che sperare che le esigenze dei caregiver familiari ricevano altrettanta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, e che ci si scandalizzi con altrettanta forza per l’isolamento in cui vivono.
(Manuel Tartaglia)