In questa prima metà dell’anno, gli italiani sono stati chiamati ben due volte alle urne (referendum sulle trivelle ed amministrative comunali). In ambo i casi, l’affluenza delle persone aventi diritto a votare è in decisa diminuzione pressoché ovunque, decretando anche minimi storici. A causa di questo risultato, si teme per la stagione autunnale, quando ci sarà il referendum sulla riforma costituzionale (ddl costituzionale A.C. 2613-D). Perché il partito del non voto è in crescita? Quali sono le prospettive per il futuro?
In Italia, il voto è protetto dalla Costituzione. Come recita l’articolo 48, “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. […] Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. Nonostante sia un diritto inviolabile ed un dovere civico, l’affluenza alle urne è in netto calo: secondo i dati pubblicati da Openpolis, nel 1948 – la prima storica chiamata alle urne per il popolo italiano -, l’affluenza del corpo elettorale fu del 92,23%, mentre nel 2013 si presentò il 75,20% (per la prima volta sotto l’80%); se pensiamo poi alle amministrative comunali del 2016, al primo round il dato si attestò al 67,42%, al secondo al 50,52% (un italiano su due avente diritto di voto si è presentato alle urne). Confrontando queste percentuali con le elezioni comunali del 2011, emerge una situazione ancora più grave: al primo turno, il corpo elettorale che risposte alla chiamata fu del 71,04%; al secondo, del 60,21%. In linea generale, negli ultimi cinque anni c’è stato un netto calo.
Com’è la situazione nelle maggiori città italiane? Prendiamo in esame i casi di Napoli, Milano, Torino e Roma. In qualche modo, la Capitale è l’unico capoluogo a salvarsi: le ultime amministrative hanno registrato un aumento di 100 mila elettori rispetto al 2013, anche se, in generale, il trend è ancora in calo. Quando nel maggio 2013 fu eletto Ignazio Marino del Pd, l’affluenza alla prima tornata fu del 52,81%, alla seconda del 45,05%. L’elezione della neosindaca pentastellata Virginia Raggi invece ha visto alle urne il 57,60% alla prima chiamata, 50,46% alla seconda. Le altre città hanno registrato cali sensibili: a Milano, la percentuale è scesa di tre punti (2011: 1° turno 67,56%, 2° turno 67,38%; 2016: 1° turno: 54,65%, 2° turno 51,80%), mentre a Torino non si è raggiunta neanche la soglia del 60% in entrambi i round (cinque anni fa bastò una chiamata per eleggere Piero Fassino, e la partecipazione fu del 66,53%); Napoli ha riportato minimi storici devastanti: quest’anno, al primo turno ha risposto il 54,11% del corpo elettorale, al secondo solo il 35,96% (ben 20 punti percentuali in meno), mentre cinque anni fa le stime furono del 60,33% al primo round e 50,58% al secondo.
Secondo Gianfranco Pasquino, ex senatore e politologo, vi sono tre cause che sono alla base di questo astensionismo: la partecipazione alle urne è riservata alle elezioni più importanti (vi è più affluenza alle elezioni politiche che a quelle amministrative); la forte somiglianza tra proposte e idee dei vari candidati viene percepita con scarso impatto sui cittadini; la crisi dei partiti non aiuta a mobilitare gli elettori verso le urne. In sostanza, vi è una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche. A confermarlo è il terzo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) dell’Istat, che annota come nei confronti delle istituzioni analizzate sia stato ottenuto il punteggio medio di sfiducia più basso dal 2011 (la fiducia nel parlamento e nei partiti italiani è in leggera ripresa, ma sempre inferiore rispetto la linea generale). Questo sentimento è nato negli anni Novanta, dopo lo scandalo Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Lo certificano i dati: il tasso di partecipazione alle urne degli italiani nel 1992 fu dell’87,35%, nel 1996 dell’82,80% e nel 2013 del 75,20%.
Com’è possibile risolvere questa situazione? Recentemente è avanzata l’ipotesi di rendere il voto obbligatorio. Attualmente questa normativa è prevista in 26 paesi nel mondo, e il non votare comporta diverse sanzioni, tra cui la perdita di alcuni diritti civili. Ma anche nei paesi dov’è obbligatorio votare, vi è un trend negativo alle urne (poco più del 70% delle persone avente diritto ha risposto alla chiamata). Rispetto agli stati dove votare non è obbligatorio, la differenza è solo del 7,37%. Dunque l’obbligatorietà non sembra la soluzione adeguata.
Si è considerato anche di cambiare la legge elettorale, conformandola con quelle di altri paesi europei (ad esempio, in Francia il diritto di voto è legato all’essersi iscritti alle liste elettorali). Una soluzione drastica che, dati alla mano, non porterebbe a quanto auspicato. Anche nelle maggiori città europee (Madrid, Parigi, Londra e Berlino) è stato registrato un netto calo di affluenza alle urne, ricordando però che ogni nazione ha una differente modalità di chiamata, ed un confronto in termini di percentuali è difficilmente eseguibile.
Diversi politici hanno legittimato il diritto del non voto, soprattutto in occasione del referendum sulle trivelle. Sta di fatto però che la situazione è delicata. In Italia, questa tendenza è sentita come un taglio vero e proprio alla democrazia. Sono sempre più le persone che decidono di non andare a votare, e vi possono essere altre cause oltre a quelle già presentate: precetti culturali e religiosi, le ultime chiamate sono state svolte in un’unica giornata, la presenza di ponti festivi durante l’apertura delle urne e via discorrendo. La sfiducia nei confronti dei partiti e dei loro candidati però sembra essere la causa più accreditata, a cui ancora non è stata trovata una soluzione degna di nota.
Articolo di Angelo Andrea Vegliante