C’è un uso politico della Storia da parte di chi dalla Storia è stato sconfitto. Le destre utilizzano il Giorno del Ricordo non come occasione per approfondimenti storici, ma come strumento di una pericolosa propaganda nazionalista, generalizzando con approssimazione la tragedia delle “foibe”, così carica di dolore e sofferenza da tutte le parti
Le storie di violenza e di confine portano con sé complessità intrinseche.
Il Confine Orientale italiano è stato teatro di tragedie che hanno segnato la storia del Novecento. Nonostante siano passati ormai più di settant’anni ancora oggi siamo qui a domandarci quale è la “colpa primigenia” delle disgrazie del Novecento? C’è una relazione di causa ed effetto tra gli orrori delle due guerre mondiali e ciò che avvenne immediatamente dopo? Come possiamo impedire gli orrori di oggi? Queste sarebbero forse le uniche domande legittime da farsi in questo giorno.
Tra i cinque Assiomi della Comunicazione Umana del famoso psicologo Paul Watzlawick c’è il terzo assioma legato alla punteggiatura. La comunicazione contiene differenti varianti della realtà, che si producono e variano nella relazione tra gli individui. Le interpretazioni diverse nascono dalla punteggiatura della sequenza degli eventi: ognuno tende a credere che l’unica versione possibile dei fatti sia la propria. Nelle relazioni conflittuali si ritiene che il torto sia sempre e solo dall’altra parte perché uno ha presente solo la propria visione della punteggiatura nella relazione.
Con la consapevolezza che esiste una complessità in una relazione segnata da guerre, violenze e deportazioni, nacque nel 1993 la Commissione storico culturale italo slovena formata da studiosi Italiani e Sloveni con il fine di ricostruire una storia condivisa tra i due popoli. L’intento per era quello di fare “chiarezza sui problemi del passato” e di creare i presupposti per rapporti futuri quanto più genuini, tra l’Italia e la Slovenia. I governi dei due stati proposero “che un gruppo di esperti dei due paesi, tracciasse con attenzione ed obiettività il quadro storico degli avvenimenti” (Dimitrij Rupel Ministro degli Esteri della Repubblica di Slovenia 2001) lungo il confine Italiano e Sloveno; erano inoltre consapevoli che fosse compito degli storici, fuori da ogni strumentalizzazione politica, far emergere un’elaborazione critica del passato.
Per sette anni, 14 membri della Commissione mista hanno avuto accesso agli stessi documenti, hanno condiviso archivi e in piena indipendenza hanno cercato di far luce sui tragici fatti e relazioni lungo il confine orientale, tra italiani e sloveni. Così il 27 giugno del 2000 a Udine la Commissione mista (sette italiani e sette sloveni) adottavano all’unanimità il Rapporto finale congiunto sulle relazioni italo-slovene dal 1880 al 1956. Dopo otto mesi dalla stesura finale, il Governo Italiano bloccava ancora la pubblicazione di tale documento. Il 4 aprile 2001 il Corriere della Sera che venne in possesso della Relazione denunciò la mancata pubblicazione da parte italiana. L’articolo a firma di Francesco Alberti sintetizzò così il Rapporto:
Vengono minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver cercato di «snazionalizzare» le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia «con una politica repressiva assai brutale», il cui intento finale era quello «di arrivare alla bonifica etnica» della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle violenze compiute, dopo l’8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di «molte migliaia di arresti», si quantificano «in centinaia» le persone che trovarono la morte nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano «le deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia creati in Jugoslavia». E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei partigiani titini fu una «violenza di Stato». Viene, inoltre, ricostruito l’esodo degli italiani dall’Istria nel dopoguerra, «oppressi da un regime di natura totalitaria che impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale”.
Certo, questo non è un rapporto storico definitivo. La Storia, come qualsiasi scienza, è soggetta a riletture e nuove interpretazioni critiche dei fatti sulla base di nuove scoperte o documenti. Il lavoro della Commissione resta un interessante esempio di collaborazione tra popoli e studiosi, nel tentativo di ricostruire una memoria condivisa, come base per la distensione dei rapporti tra le parti. I risultati della Commissione non sono di certo frutto di mediazione politiche per far emergere una verità comoda ai governi. Infatti, immaginiamo che sia questo il motivo per cui in Italia non ha avuto una grande diffusione. Anzi, spesso la politica italiana ha preso poco in considerazione il lavoro della Commissione. Ma sappiamo che la politica non ha bisogno della verità, ma di miti capaci di muovere le masse. Ha bisogno di slogan, di nemici e capri espiatori.
Così nel 2004 l’Italia istituisce con la Legge n.92 il 10 Febbraio di ogni anno il «Giorno del ricordo» “in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”. La data scelta è di certo infausta, perché è l’anniversario della sottoscrizione del Trattato di Pace con cui l’Italia regolò i conti aperti nella Seconda Guerra Mondiale, firmò la fine della guerra nazifascista ed il riscatto della Resistenza concludendo le contese aperte specialmente riguardo alla Jugoslavia ed ai confini orientali. Invece di un giorno di celebrazione il 10 febbraio viene vissuta da tanti come una data per tutte le recriminazioni nazionalistiche.
Tutto questo diventa sempre più pericoloso in un periodo dove le spinte nazionalistiche e identitarie in Italia hanno sempre più spazio, dove i pregiudizi e le semplificazioni alimentano lo spirito anti-europeo, ultimamente in chiave antifrancese, in cui si aggiungono anche narrazioni distorte tese a minimizzare o a cancellare le nostre colpe passate, ad assolverci come popolo enfatizzando le colpe degli altri (la rimozione del nostro passato coloniale in Africa, senza parlare del presente del ruolo dell’Eni nel mondo e di Finmeccanica-Leonardo nel traffico di armi, sono tra queste).
Tra le celebrazioni del “Giorno del Ricordo” che tentano di uscire dalla logica della rivendicazione e si oppongono alla tentazione di pareggiare i conti (in passato motore dell’odio tra le parti) merita di esser menzionata quella del ”Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo, in cui Peppe Sini nel suo discorso invita ad ascoltare le vittime di allora e di oggi:
Ricordare le vittime significa ascoltarne la voce. E la loro voce ci chiede di salvare le vite. Di salvarle qui e adesso. Di soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto. Così in questa giornata in cui ricordiamo alcune delle innumerevoli vittime innocenti delle violenze di quegli anni del secolo scorso di dittature e guerre, di razzismo e genocidio, quando l’umanità intera dovette insorgere per impedire che il male assoluto nazista s’impadronisse del mondo ed annichilisse l’umanità; [...] in questa giornata io – come ogni persona senziente e pensante – mi pongo ancora una volta all’ascolto della loro disperata richiesta di aiuto.[…] Il ricordo delle vittime di allora, l’ascolto delle vittime di allora, il messaggio e l’appello delle vittime di allora, mi convoca e ci convoca tutte e tutti a salvare le vittime che possiamo e dobbiamo salvare oggi. E le vittime che possiamo e dobbiamo salvare oggi sono innanzitutto quelle che oggi subiscono sevizie e muoiono nei lager libici, quelle che oggi muoiono annegate nel Mediterraneo, quelle che oggi sono perseguitate dal governo italiano, dal razzismo e dal nazismo che torna. La voce delle vittime, di tutte le vittime, questo ci chiede: salvare le vite, opporci ad ogni violenza”.
Per chi volesse approfondire presso il Circolo Giustizia e Libertà di Roma, in via Andrea Doria, 79, il 15 febbraio 2019 si svolge la presentazione del libro La tragedia del confine orientale di Giorgio Giannini del Centro Studi Difesa Civile.
Articolo di Massimo Guitarrini