Si conclude con una condanna esemplare nei confronti dei suoi assassini, la vicenda giudiziaria che ha visto protagonista involontario il ragazzo di Paliano
Cinquanta secondi. Questo è il lasso di tempo in cui un ragazzo di ventuno anni ha smesso di vivere.
La storia di Willy Monteiro Duarte è tristemente risaputa. 6 settembre 2020, il ragazzo, di professione cuoco, era in giro per i locali di Colleferro (Roma), nella piazza frequentata da tutti i giovani della zona. Il sabato stava lasciando il posto alla domenica, quando alle 3:30 è avvenuto il fatto. Alcuni testimoni hanno parlato del Suv dei fratelli Bianchi arrivare. I due sono conosciuti, hanno fama di essere degli attaccabrighe, due fratelli curati nell’aspetto, esperti della disciplina marziale MMA e con l’atteggiamento arrogante. Sembrerebbe che Willy non conoscesse i due e proprio questo gli è stato fatale: mentre molti si allontanano al loro arrivo, Willy decide di mettersi in mezzo ad una lite che era velocemente scoppiata fra loro e un suo amico, finendo per ricevere pugni e calci in tutto il corpo, anche in testa. Cosa che ha portato alla sua morte.
A distanza di due anni si torna a parlare della vicenda, perché i due fratelli Marco e Gabriele Bianchi, sono stati condannati all’ergastolo. Gli altri due ragazzi che hanno partecipato al pestaggio, Belleggia e Pincarelli, sono stati condannati rispettivamente a ventitré e ventuno anni da passare in carcere.
Il caso di cronaca ci spinge a un grandissimo lavoro di pensiero.
Ciò che colpisce immediatamente è l’efferatezza, la freddezza e la superficialità con cui è stato compiuto l’omicidio. I due fratelli ed i loro amici non negano di aver picchiato Willy, sono stati visti, ma per tutto il tempo del processo, hanno negato di averlo ucciso. Eppure, la ricostruzione è stata semplice: Willy è stato preso a calci in testa durante la rissa. Una rissa scattata in modo quasi casuale, così hanno raccontato i testimoni, per motivi futili e con motivazioni che se anche avessero avuto senso, non avrebbero portato di certo a compiere un omicidio.
Per quanto riguarda le responsabilità, diversi commentatori hanno attribuito un forte peso al concetto di “mascolinità tossica”, cultura di cui gli omicidi sono permeati. Con questo termine vengono definiti gli atti violenti e di rivalità compiuti da uomini, figli delle società patriarcali in cui ancora oggi viviamo. Questo tipo di cultura ritiene le donne esseri inferiori o da “proteggere”, e contemporaneamente genera uomini impauriti nel mostrare le proprie emozioni: mai sembrare “deboli”.
C’è un forte dibattito anche sulla condanna che è stata applicata al caso. L’ergastolo è tecnicamente proporzionato all’atto e la maggior parte dei commentatori esulta, ma c’è anche chi si chiede se obbligare qualcuno a passare tutta la vita in prigione, senza concedergli possibilità di riscatto, sia una soluzione vantaggiosa per la società in cui viviamo.
Tanti gli spunti di riflessione e le domande senza risposta legati a questo triste avvenimento, che non è però caso isolato. Noi tutti siamo chiamati ad adoperarci per un cambiamento, una transizione più veloce verso ciò che è rispetto, compassione e comprensione verso gli altri, prima che altre situazioni simili avvengano.
(Angelica Irene Giordano)