Secondo i dati Istat 2015, la violenza contro le donne è un fenomeno ampio e quanto mai diffuso: sei milioni e 788 mila donne in tutta Italia hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. In generale, ci basti pensare che di questo insieme il 31,5% riguarda persone tra i 16 e i 70 anni. In merito ai tipi di violenza, invece, abbiamo quella sessuale (21%), dove troviamo gli stupri (652 mila) ed i tentati stupri (746 mila). Una statistica confortante – se possiamo ritenerla tale – è la diminuzione di questi deplorevoli atti: negli ultimi anni si è passati dal 13,3% all’11,3%, merito anche di un’informazione più presente e capillare. Senza contare, poi, anche la violenza psicologica (un esempio, sono circa 3 milioni e 466 mila le donne vittime di stalking). Ma ancora non è abbastanza.
Noi di FinestrAperta abbiamo più volte trattato il tema con diversi articoli ed interviste ad istituzioni di settore (per maggiori approfondimenti, cliccare qui, qui e qui). Parlare però di violenza contro le donne non significa solo celebrare il 25 novembre (la giornata nazionale contro queste barbarie), ma serve un’attenzione maggiore e costante, rivolta soprattutto ad osservare il mondo attorno a noi. Come spiegano le associazioni però, non è così semplice combattere questo fenomeno, e quindi sollevare il tema a più riprese non può solo che essere positivo.
Dunque, oggi torniamo a trattare l’argomento, e lo facciamo in occasione dell’uscita del videoclip di Funkattivo, brano della nostra amica Elisabetta Guido, cantante jazz di respiro europeo (per approfondire la sua carriera artistica, ascoltate le nostre interviste qui e qui). L’opera, il cui official video è uscito il 19 dicembre 2016, racconta una storia di violenza realmente accaduta, e così abbiamo chiesto all’artista di parlarcene più approfonditamente.
Bentornata su FinestrAperta, Elisabetta. Cominciamo dal videoclip di Funkattivo. Quali sono i primi riscontri ottenuti a circa un mese dalla sua diffusione?
«Ciao Andrea e salve a tutti gli ascoltatori e collaboratori di Radio FinestrAperta. Il nuovo videoclip ci sta dando grandissime soddisfazioni, perché a meno di un mese dall’uscita ufficiale ha già totalizzato più di 30 mila visualizzazioni su Facebook e più di 7 mila visualizzazioni su Youtube. Un vero record, se si considera che parliamo di un brano jazz. Inoltre ci stanno contattando spesso per interviste e stanno scrivendo bellissime recensioni».
Il brano racchiude un tema attuale e di complessa trattazione: la violenza psicologica e fisica sulle donne. In particolare, Funkattivo riporta una storia realmente accaduta. Ci puoi raccontare la realizzazione dell’opera?
«La storia che fa da sfondo a Funkattivo è quella realmente vissuta da una persona che ho conosciuto all’incirca due anni fa e che mi ha aperto gli occhi su una psicopatologia di cui non ero a conoscenza, ma che è molto più diffusa di ciò che si pensa, il “narcisismo sadico manipolatore”. Chi ne è affetto è stato di solito un bambino poco amato dai genitori, che cresce e resta per sempre un insicuro e trae le sue uniche sicurezze ed il nutrimento del proprio narcisismo esasperato dallo “schiacciare” psicologicamente e a volte anche fisicamente la persona che hanno accanto in amore o con cui hanno a che fare strettamente, anche nel lavoro o in amicizia. Sono persone prive di “empatia”, cioè di capacità di immedesimarsi nel dolore altrui, per cui infliggono sofferenze senza pensare al male che fanno. Non sono in grado di riconoscerlo. Non hanno sentimenti, se non istinti primordiali e per quanto possano durare. Distruggono psicologicamente la preda, di solito persone molto in gamba o molto belle fisicamente, ma fragili, attraverso la “manipolazione”, cioè attraverso l’uso di sottintesi e allusioni atte a far sentire loro un forte senso di inferiorità rispetto all’aguzzino e di inadeguatezza. È fra l’altro, leggevo, una sindrome non curabile con la psicoterapia, perché la mancanza in questi soggetti dell’empatia con gli altri impedisce al terapeuta di entrare in contatto profondo con loro e quindi di curarli. Io non ho fatto altro, colpita da questo racconto, che studiare tutto ciò che ho potuto travare sulla sindrome e scrivere un brano del mio ultimo cd The good storyteller (Dodicilune), che racconta storie d’amore al femminile».
Com’è stato trasformare una storia di violenza realmente accaduta in una canzone? Non mi riferisco alla difficoltà in essere, quanto alle emozioni che possono nascere durante questa trasformazione.
«Nella mia vita ho avuto a che fare spesso con persone che hanno dovuto affrontare il difficile cammino della psicanalisi, per cui scrivere di una sindrome di questo genere è stato per me interessante dal punto di vista dell’approfondimento di queste tematiche, cosa che faccio da anni per mia conoscenza. Ho cercato di rendere al meglio, nel modo di interpretare il brano, l’angoscia che il mio personaggio provava, attraverso le pieghe e i toni della voce, facendo un lavoro quasi più da attrice che da cantante. Mentre scrivevo mi attraversavano mille pensieri, mi rendevo conto che forse anche io nella vita sono venuta a contatto, più sul lavoro però, devo dire, spesso con questo tipo di narcisismo esasperato, rendendomi conto di come esso sia molto più diffuso di quanto non si pensi».
Diciamolo senza mezzi termini: nonostante l’evoluzione umana, la violenza sulle donne è un fenomeno quanto mai presente nella società attuale. A tuo avviso, come mai è così difficile combattere questa atrocità?
«Voglio essere sincera, parlare senza mezzi termini, anche se so che quello che dico potrebbe suscitare delle polemiche. Queste persone, parlo dei narcisisti sadici e manipolatori, sono di solito ragazzini sensibili e potenzialmente molto in gamba, che non sono stati in grado di esprimersi al meglio nella vita a causa dell’insicurezza in sé stessi che deriva dal non avere avuto l’amore dei genitori. Ciò porta con sé già moltissima frustrazione e allo stesso tempo una smania di protagonismo narcisistico che non viene appagata da adeguata visibilità. Il mio modesto parere è che oggi la crisi economica abbia reso queste frustrazioni ancora più forti in chi già ne soffre, perché si è aggiunto lo scoglio anche della mancanza di soldi e del dover affrontare le difficoltà quotidiane che questo comporta. In più consideriamo che accendendo la tv si vede ogni giorno nei talk show o in alcuni reality, ad esempio, gente spesso senza arte né parte avere grande visibilità, ed il gioco è fatto: la frustrazione diventa profondissima, il senso di inadeguatezza diviene insopportabile e si scarica tutto ciò sulla persona che si ha più vicino e a portata di mano, e che magari per amore si lascia soggiogare ed infliggere sofferenze. Questo però sino a che la vittima stessa non ce la fa più e scappa (perché succede quasi sempre in questi casi), ed è lì che il narcisista sadico preferisce, nelle circostanze più gravi, eliminare fisicamente la preda, rea di averli abbandonati e aver fatto loro perdere la fonte del loro nutrimento narcisistico. Fra l’altro, è difficilissimo individuarli, se non si è dentro la storia, perché queste persone all’esterno si comportano in maniera ineccepibile, spesso».
In passato, diverse associazioni di settore hanno spiegato che talvolta è complesso fermare questi costanti atti di violenza, in quanto le donne stesse ritirano le denunce pochi giorni dopo il fatto. E, in alcuni casi, si arriva anche alla morte delle stesse. Secondo te, perché accade questo?
«Credo che dipenda principalmente dal fatto che queste donne, psicologicamente fragili, si autoconvincono, ovvero vengono convinte dall’aggressore della propria inadeguatezza. Spesso per anni viene loro fatto credere dal compagno di non valere nulla. Da qui il passo è breve a far credere a queste donne che sia loro la colpa delle sofferenze che il sadico infligge loro. Altre invece vengono minacciate e preferiscono cercare di “tener buono” l’aguzzino ritirando le denunce. Infine ci sono casi particolari, quelli delle donne che sopportano per non togliere un padre ai loro figli (non capendo che così fanno solo il male dei propri figli, oltre che di sé stesse) oppure delle donne non indipendenti economicamente, che non saprebbero dove andare e cosa fare se perdessero il sostentamento economico del compagno, soprattutto, ancora una volta, se hanno anche dei figli da mantenere».
Di fatto, possiamo affermare che si tratta di un forte problema culturale? Mi viene da pensare, ad esempio, ai commenti online di persone che semplificano – in modo becero – la tematica nel vestiario del genere femminile…
«Non saprei. Io ho conosciuto sul lavoro sadici con una bella cultura, felici di infliggere frustrazioni ai loro sottoposti. Anzi, a volte l’aver studiato molto e l’avere un “sapere” superiore a quello degli altri e non essere in grado, per senso di inadeguatezza, di esprimerlo o di essere apprezzati alla massima potenza, porta in questi soggetti frustrazioni ancora più profonde, che vengono sfogate ancor di più sugli altri. Al più si può pensare che a questa frustrazione si aggiunga anche il nuovo ruolo della donna nel mondo del lavoro, ma anche il suo essere più libera nel modo di vestire e dal punto di vista sessuale. Ma è chiaro che quando un uomo si appella a questo per giustificare il proprio comportamento violento si tratta solo di scuse, anche perché, almeno nel mondo occidentale, ne ha già avuto di tempo per accettare e metabolizzare il nuovo modo di essere delle donne. È chiaro, certo, che ci sono delle società che hanno accettato di meno e con più difficoltà la donna moderna. Forse quando è un’intera società a manifestare intolleranza nei confronti del nuovo ruolo delle donne, colpendole subdolamente sotto l’aspetto “vestiario inadeguato” o “comportamento sessuale troppo disinibito”, si può parlare di limiti culturali. Ma quando è una persona singola, non è necessariamente così».
Come mai hai scelto di parlare di questo argomento su una base musicale, appunto, funkattiva?
«La critica mi ha definito una “neoimpressionista” come autrice. Quindi nei miei brani melodia, armonia e ritmo sono a servizio delle emozioni che si vogliono descrivere e trasmettere. Il funk è un ritmo che già di per sé all’origine è “cattivo”, “rude”, direi, molto “vero”. In più ho usato a livello armonico gli accordi “cattivi”, quelli con la nona diesis, per gli addetti ai lavori. E la melodia è incalzante, senza respiri, come di una donna che è stata zitta per troppo tempo ed ora tira fuori tutti i rimproveri che non è stata in grado di rivolgere prima al proprio aguzzino».
Nel videoclip viene inscenata una storia di violenza, con protagonisti gli attori Flavia Mancinelli e Damiano Perrons. Come hai trovato la loro interpretazione?
«Sono stati fantastici, come d’altra parte mi aspettavo da due attori usciti da scuole come l’Accademia di Arte Drammatica. Sono ragazzi che hanno iniziato da tempo brillanti carriere, Damiano anche in Francia, e che nel videoclip sono riusciti ad essere convincenti nonostante l’assenza di dialoghi parlati. La regista, Agnese Correra, ha preteso molto da loro, ma loro sono stati impeccabili!».
Reputo molto interessante la similitudine grafica/psicofisica tra il vaso di creta e la fragilità della donna…
«Questo è stato un colpo di genio della regista, che è anche la sceneggiatrice, oltre che una delle produttrici, del videoclip. Fortunatamente la protagonista è solo apparentemente fragile, per cui la sua “coscienza adulta”, che nel videoclip sarei io, riesce a “svegliarla” e convincerla a fuggire».
Alla realizzazione del videoclip hanno collaborato molti nomi illustri. Come sono nate queste diverse collaborazioni?
«Da amicizie e collegamenti che nel tempo mi sono ritrovata. Rapporti di stima che solo chi fa una lunga gavetta e crede sempre nel valore della qualità del lavoro riesce a crearsi, a mio parere. La regista, ad esempio, Agnese Correra, mi è stata presentata da Sofia Capestro, una mia cara amica con cui collaboro spesso che si occupa di danza a livello internazionale, come coreografa e manager e vive fra Parigi e l’Italia. Andrea Baccassino, l’altro produttore, ha prodotto, bontà sua, quasi tutti i miei videoclip e lo reputo una delle persone più sorprendenti ed intelligenti che io abbia mai conosciuto. Ha collaborato con la sua Abac Digital Studio a molte produzioni di videoclip importanti, come quelli di Ramazzotti, di J-Ax, Fedez e così via. Ma si occupa anche di edizioni musicali, di cabaret e scrive bellissime canzoni. Il direttore di produzione, Angelo Troiano, mi è stato presentato da una mia bravissima allieva e cantautrice in carriera in ambito indipendente, Alea, un’artista di cui sentirete presto parlare molto, a mio avviso. Angelo è uno dei proprietari della casa di produzione Mediterraneo cinematografica, che lo scorso anno con il corto Thriller di Giuseppe Marco Albano, ha vinto il David di Donatello. Non posso poi tacere dell’eccezionale bravura del direttore della fotografia, Stefano Tramacere, del tecnico del montaggio, Marco Cataldo e di colui che ha realizzato gli effetti speciali del viso della protagonista che si sgretola come un vaso di creta, Antongiulio Martina e delle due truccatrici Paola Rizzo e Roberta Stifini. Tutte persone che lavorano ad altissimi livelli e che hanno preso davvero a cuore questo progetto».
Veniamo al disco che contiene il brano, The Good Storyteller. Che riscontri sta ottenendo?
«Ottimi, direi. Basta vedere l’ampiezza della rassegna stampa che lo ha riguardato sulla pagina dedicata al disco sul sito della mia etichetta, Dodicilune. Anche grazie agli attivissimi uffici stampa di Gianpietro Giachery e di Pierpaolo Lala (per Dodicilune). Per me, che sono una cultrice della musica “di nicchia”, una delle più grandi soddisfazioni è stata quella di essere intervistata, ad esempio, da Radio Rai 3, paladina, a differenza della maggior parte delle radio nazionali, della musica di qualità. Io ho fatto del mio meglio per descrivere il mondo delle protagoniste delle mie storie, ma sono stata aiutata moltissimo dai musicisti che erano con me nel cd, il grande Roberto Ottaviano, Danilo Tarso, Stefano Rielli, Francesco Pennetta, gli Zimbaria, i Tamburellisti di Otranto, Elisabetta Macchia e Francesco Del Prete».
Nell’imminente futuro, che impegni artistici ti attendono?
«A breve mi esibirò in diversi concerti con il mio quartetto jazz, con al pianoforte in alcune occasioni Carla Petrachi, in altre Danilo Tarso, che è il pianista ufficiale della formazione. Il 4 febbraio a Nardò (Le) ci esibiremo con il bravissimo fisarmonicista Vince Abbracciante come guest star, ad esempio. Poi inizierà un tour di presentazione del cd a livello nazionale. Toccheremo tappe come la Camera del Lavoro di Milano il 10 marzo ed il “Teatro del Sale” di Firenze l’11 marzo. Poi ci saranno senz’altro delle novità perché con Elisabetta Guido Jazz Quartet e con altri miei progetti siamo entrati da qualche mese nella scuderia del grande manager Antonio Laino, che si occupa anche di artisti come Antonella Ruggiero per l’estero. Poi lavorerò come sempre con le mie amiche Damiana Mancarella e Daria Vernaleone, bravissime manager ed organizzatrici, ad eventi e jazz festival, come il Doctor Jazz Mios Festival di Muro Leccese, che tante soddisfazioni sta dando a me e all’altro direttore artistico Romualdo Rossetti. Insomma, tanto da fare…ma tutto bellissimo…tutto vita ed entusiasmo!».
Articolo di Angelo Andrea Vegliante