“Attenzione, tutto quel che abbiamo rappresentato è tratto dalla realtà. È già accaduto prima che ci mettessimo a scrivere. Il taglio di capelli di Gennaro, la parlata di Ciro vengono imitati? Certo: il mondo criminale che noi raccontiamo si vede rappresentato. Incolparci per questo è un atteggiamento omertoso. Sulle pagine Facebook dei giovani camorristi ci sono anche frasi di Che Guevara, slogan dei brigatisti. Tutto quel che è conflitto viene buono. Pensare che non ci possa essere l’osmosi con i personaggi della serie è una ingenuità. Quando ho scritto Gomorra, il tema de Il camorrista, il film di Giuseppe Tornatore, era su tutti i cellulari dei ragazzini. E quindi? Consideriamo Nicola Piovani, l’autore della colonna sonora, responsabile della faida tra Cutolo e il resto della camorra?”. Roberto Saviano ha concluso così la sua intervista al Corriere della Sera pochi giorni fa, lo scrittore è stato chiamato in causa in concomitanza con la messa in onda della nuova stagione televisiva di “Gomorra” (trasmessa e prodotta da Sky), la serie cult tratta dall’omonimo libro e film di cui è ideatore. Pizzicato immediatamente dalla domanda più prevedibile ed opportuna, cioè se certi format cinematografici e televisivi favoriscano o meno l’emulazione di alcuni stereotipi negativi, l’autore ha risposto per le rime consigliando di aprire gli occhi e “uscire di casa per vedere che determinate piaghe esistevano già da prima che uscisse il libro, il film e la serie”. In effetti, quando le luci del set si spengono e i libri si chiudono, un occhio attento ormai può tranquillamente notare che la criminalità esiste (non solo a Napoli). E’ presente anche un’omertà radicale e radicata che consente di far credere quanto la camorra sia frutto esclusivamente della fiction piuttosto che della fantasiosa penna di un ex saggista.
Appena Sollima (a cui va riconosciuto il merito di aver reso più che degnamente una realtà becera in serialità) decide di portare in televisione un racconto differente, un progetto filmico innovativo che prende le distanze dallo stile di Garrone per mostrare in maniera più ampia e cruda la routine criminale, viene subito sommerso dalle critiche: “Un bel prodotto, ma troppo violento”, “Questa serie è uno spot per il malaffare”, “A Scampia e Secondigliano non c’è solo la delinquenza, come certi registi vogliono far credere”. Gli eccessivi rimproveri hanno portato ulteriori difficoltà nel completare le riprese, si vedano i permessi negati per girare le scene a Giugliano, Acerra e Afragola. Al netto di tutti gli inconvenienti, le serie (entrambe) sono state ultimate e costellate da grande successo: interesse, curiosità, pathos dello spettatore che per una sera a settimana vuole immergersi nei meccanismi del malaffare o semplicemente lasciarsi coinvolgere dall’atmosfera Crime Thriller. L’ampio share ha fatto sì che, per qualche tempo, le critiche si placassero (o quantomeno venissero messe a tacere dinnanzi ai numeri d’ascolto: se viene trasmesso qualcosa, è sempre e comunque per volere del pubblico). Così “Stat senza pensier” diventa un invito spassionato a posizionarsi sul divano per vedere le peripezie della famiglia Savastano, tutto normale sino a quando – nel corso della prima stagione – viene proposta una scena in cui una ragazza con disabilità si reca (su consiglio della madre) da ‘Donna Imma’ – moglie del boss Savastano – per chiedere un posto di lavoro: “Trovate qualcosa a ‘sta piccirella” e, durante la processione, si vede la giovane che da casa – seduta su una sedia a rotelle – fornisce siringhe e laccio emostatico ai tossici di passaggio. Apriti cielo: la camorra che “dà lavoro” alle persone con disabilità. Sconvolgente a dir poco, infatti si è detto molto. Troppo. Si è andati a scomodare qualcosa che non doveva essere toccato, almeno questo devono aver pensato i vertici televisivi vista la pioggia di ammonizioni – per usare un eufemismo – che è arrivata a Sollima e compagni. In effetti accostare la disabilità alla camorra è un atto di coraggio: un gesto che nessuno aveva mai fatto, tanto raro da far balenare nella mente molti interrogativi: la criminalità utilizza le persone con disabilità? In che modo? E soprattutto, perché queste si rivolgono ai criminali? E’ una serie tv, magari, si è trattato semplicemente di un espediente per far presa sugli spettatori; o forse no, è una realtà sommersa che un regista meno impaurito di altri ha deciso – controcorrente – di mostrare in un frammento.
Per capirlo, basta mettere in pausa la serie, andare su Google, e digitare ‘camorra e disabilità’. Un modo come un altro per “aprire gli occhi e rendersi conto della realtà” come suggerisce Saviano: ci sono molti articoli interessanti che – in mezzo a tante cose risapute (a Casal di Principe molti terreni sequestrati alla criminalità sono diventati centri ricreativi per persone con disabilità) – mostrano quanto il crimine attinga dalle fasce più deboli: non soltanto lucrando su appalti destinati ad Onlus, come insegna anche Mafia Capitale, ma proprio “arruolando” persone che vivono una disabilità quotidianamente. Scorrendo le varie notizie, emerge la storia di Giuseppe Albiano detto “Peppe ‘o Corsaro”. Quest’uomo è stato arrestato nel 2013 ed è passato alle cronache per la seguente frase: “Sono disabile, ho una paralisi completa alle gambe: se volete arrestarmi, prima prendete la sedia a rotelle, è nel bagagliaio”. Parole dette subito dopo esser stato catturato, al termine di un inseguimento mozzafiato, per aver preso parte ad una rapina in gioielleria. Giuseppe lavorava per il clan Cantiello, faceva l’autista ed ha sempre usato macchine modificate positamente per lui e la sua disabilità: “L’acceleratore a tutta (ma è quello sistemato sul cruscotto, studiato per i disabili), l’asfalto divorato sul filo dei 200 all’ora. Alla guida dell’auto c’è un «fuoriclasse» del volante. Si sposta sulla carrozzina da una ventina d’anni, da quando, durante un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine seguito ad una rapina, un suo complice restò ucciso mentre lui, colpito alla spina dorsale, rimase paralizzato. La pesante disabilità non ha certo cancellato la passione per la velocità: infatti nel suo palmares non ci sono solo rapine, ma anche vittorie e piazzamenti nei rally clandestini organizzati dalla camorra”(Corriere della Sera, 23 febbraio 2013). La sua condizione non gli ha impedito di fare quello che sapeva: il criminale, seppur pilota. Anzi, aveva macchine messe a punto per ogni occasione (in tempi più brevi rispetto ad altri che per avere una macchina modificata in base alla propria disabilità devono aspettare mesi). Proprio per questo persone come Giuseppe scelgono la strada del crimine, poiché trovano un’ adrenalina che nella quotidianità non riscontrerebbero. Vivere una disabilità in certe zone è più difficile, tante sono le arretratezze che ostacolano invece di favorire un inserimento sociale: la storia di Ivan Grimaldi è un triste esempio; morto barricato in casa, con la speranza di un’abitazione migliore che non è arrivata in tempo. Condannato ad una mobilità ridotta e colpevole soltanto di trovarsi nel posto sbagliato, dove l’inaccessibilità è all’ordine del giorno, fanno eco come un mantra le parole della mamma: “Con un’accurata assistenza, il suo decesso si sarebbe potuto evitare”. Questa non è fiction, purtroppo, è realtà. Uno spaccato di vita che propone una guerra tra poveri disposti a passare il confine della legalità per avere qualche speranza, in cerca di una prospettiva migliore. Tanti, come Giuseppe, godono di privilegi che sono figli di scelleratezze e molti altri aspettano i loro diritti: in comune, una disabilità con cui bisogna fare i conti. Ognuno a modo proprio, facendosi spazio nella giungla che prosegue anche dopo i titoli di coda, quando gli occhi delle telecamere guardano altrove.
Articolo di Andrea Desideri