“La carica dei 104” (il numero ricorda la legge che tutela i diritti delle persone con disabilità). Una rubrica che, mensilmente, intende fornire ritratti di personalità che non si sono abbattute e, superando ogni avversità, hanno raggiunto il successo in ogni campo: arte, cultura, sport, spettacolo. Speriamo che questa raccolta di storie sia di buon auspicio per tanti, giovani e adulti, che non riescono ancora a trovare la forza di emanciparsi. Andrea Desideri, che curerà questo spazio, racconta lo scrittore Luciano De Crescenzo.
Ormai si vive sui revival, è un continuo ricordare, commemorare, omaggiare persone, programmi e contenuti. Chiamatelo effetto nostalgia, oppure inerzia, ma è da qualche tempo che siamo rivolti verso il passato e poco proiettati nel futuro. In mezzo a tutte le riflessioni e i dibattiti in merito, c’è l’opportunità di apprendere quanto di buono abbiamo fatto nel nostro Paese. Ad esempio, qualche giorno fa, durante la celebrazione televisiva dei trent’anni di Indietro tutta – trasmissione cult degli anni Ottanta con Arbore e Frassica – è stato nominato (con una naturalezza per niente casuale) Luciano De Crescenzo.
Autore, scrittore, regista e conduttore italiano. Anche se lui ha sempre amato definirsi “una di quelle scalette con soli tre gradini, che si trovano nelle biblioteche e che consentono di prendere i libri dagli scaffali che stanno più in alto” (De Crescenzo, Storia della filosofia medievale). Eppure di strada ne ha fatta, di scale ne ha salite, senza aiuti di sorta, fino a diventare un riferimento del nostro tempo. Il suo è stato un percorso artistico graduale, non certo paragonabile alla facilità con cui oggi si raggiunge il successo – tanto semplice quanto effimero –, che gli ha permesso di capire cosa effettivamente volesse fare della sua vita. Al punto da cambiare radicalmente direzione: De Crescenzo nasce ingegnere elettronico e si riscopre scrittore e divulgatore nel 1976, dopo aver ottenuto una laurea con il massimo dei voti e un posto dirigenziale all’IBM (in cui è stato per circa vent’anni). Improvvisamente, in età adulta, in quella fase della vita in cui dovrebbe primeggiare la stabilità insieme alle certezze, decide di reinventarsi. Lascia un lavoro sicuro e ben retribuito per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Un tempo indeterminato, ha più volte ribadito, anzi “determinato da me”. A metà degli anni Settanta compone Così parlò Bellavista, un vero trattato sulla filosofia di vita partenopea che lui stesso ha definito “una specie di corso propedeutico a questa spedizione lombarda nell’habitat partenopeo”, poiché era figlio dell’ispirazione che gli era arrivata dalla visita inaspettata di alcuni amici del nord Italia. Così, per De Crescenzo, la napoletanità diviene un marchio di fabbrica da esportare ovunque. Quindi, grazie anche alla vicinanza di Maurizio Costanzo, che l’ha invitato spesso a parlare della sua opera prima, il romanzo ha venduto più di 600.000 copie venendo tradotto persino in giapponese. Un vero e proprio caso letterario.
Uno dei primi esempi di come letteratura e cinema potessero coesistere: infatti al libro seguì il film e per De Crescenzo si aprirono anche le porte del cinema. Sul grande schermo esordì come attore ne Il pap’occhio, al fianco di Benigni e Arbore. Un film che, per l’epoca, era considerato al limite della blasfemia e fece molto discutere persino nelle aule di tribunale. De Crescenzo, però, è sempre stato consapevole di ciò che faceva: ha costantemente messo in luce, in ogni suo lavoro, i comportamenti sociali e la loro basicità a seconda del contesto a cui fanno riferimento. Così, anche stavolta, non si scagliava contro l’ordine delle cose ma unicamente ne evidenziava la composizione: quindi, Il pap’occhio non si gettava contro il cattolicesimo bensì sbeffeggiava un determinato modo di catechizzare l’opinione pubblica e i fedeli. Applicabile anche in altri contesti quotidiani, ecco perché al fianco di Arbore e Benigni realizzò cose indimenticabili. Ricordiamo anche le sue competenze di sceneggiatore in film come La mazzetta di Sergio Corbucci, 32 dicembre – altro saggio filmico sulla tradizione napoletana – e Croce e delizia, di questi ultimi curò anche la regia.
Ovviamente, il cinema non ha intaccato per niente la sua capacità autoriale: le sue opere sono state tradotte in 19 lingue e vendute in 25 paesi. Letteratura, cinema e televisione. Una duttilità da non confondere con la smania del tuttologo, mai appartenuta a De Crescenzo: “Io parlo solo di ciò che conosco”. Questa candida ammissione a uno dei numerosi giornalisti che, negli anni, ha cercato di strappargli qualche dichiarazione sul suo modus operandi, denota come un grande artista sia tale solo quando è accompagnato da una buona dose di consapevolezza ed umiltà. La stessa che gli ha permesso di rimanere incisivo nel tempo, anche quando ha deciso di ritirarsi dalle scene alle soglie del Duemila: il Maestro – così viene chiamato solitamente – soffre di una misteriosa patologia che danneggia il cervello. Ne aveva già parlato il noto neuropsichiatra americano Oliver Sacks, nel libro L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Questa malattia è strana quasi quanto il suo nome, “Prosopoagnosia”: impedisce di riconoscere i volti delle persone perché il cervello non riesce più a percepire tutti insieme i lineamenti delle facce, fino addirittura, nei casi più gravi, a non distinguere più neppure il proprio volto allo specchio. Il malore si sviluppa per cause ischemiche: cioè, per una progressiva interruzione del flusso sanguigno alla zona del cervello destinata a mettere a fuoco le caratteristiche generali del viso altrui.
De Crescenzo, però, non appena ha avuto la possibilità di esprimersi pubblicamente sull’argomento, ha scherzato circa la sua condizione: “Ormai riconosco gran parte delle persone da me frequentate da sempre grazie soprattutto alla loro voce o ad alcuni segni particolari: la regista Lina Wertmuller, ad esempio, la riconosco perché ha sempre gli occhialini bianchi. Invece, il giornalista Giuliano Ferrara lo riconosco subito dalle dimensioni”. Un uomo che vive la vita con la stessa tranquillità che ha raccontato nei suoi lavori, con alternanze di dolce e amaro, che ritroviamo anche nel recente docufilm a lui dedicato: Così parlò De Crescenzo – diretto da Antonio Napoli – è un punto fermo da cui chi è appassionato al repertorio dell’autore può ripartire, ma è anche e soprattutto un’occasione per i più giovani di poter conoscere un caposaldo della scrittura e della cinematografia. Non chiamatela commemorazione, altrimenti si arrabbia.
Articolo di Andrea Desideri