“La carica dei 104” (il numero ricorda la legge che tutela i diritti delle persone con disabilità). Una rubrica che, mensilmente, intende fornire ritratti di personalità che non si sono abbattute e, superando ogni avversità, hanno raggiunto il successo in ogni campo: arte, cultura, sport, spettacolo. Speriamo che questa raccolta di storie sia di buon auspicio per tanti, giovani e adulti, che non riescono ancora a trovare la forza di emanciparsi. Andrea Desideri, che curerà questo spazio, racconta David Anzalone (attore e monologhista italiano).
Siamo ormai nell’epoca di Charlie Hebdo che, dopo l’attentato avvenuto il 7 Gennaio 2015 a Parigi, è diventato l’emblema della satira sociale. Prima erano tutti Charlie, col tempo qualcuno ha preferito esserlo meno, poiché si può ridere di qualsiasi cosa a patto che non ci riguardi strettamente da vicino. Ecco allora ergersi tutti in difesa del diritto alla provocazione (altrui) sino a quando non supera il livello di sopportazione massima. Una specie di soglia – stabilita non si sa bene da chi o da cosa – che sancisce idealmente i limiti da rispettare. Dei confini, impercettibili, entro cui bisogna stare. Quindi, la satira sociale sugli immigrati (Ghisberto ne sa qualcosa), sui politici, sulle partenze intelligenti, è accolta ben volentieri. Quella sui terremotati del centro Italia no. Perché è irrispettosa. Immorale, fuori luogo.
Ci sono argomenti su cui è lecito essere provocatori ed altri no, verrebbe spontaneo chiedersi chi l’abbia deciso ma nel Paese dell’Editto bulgaro (che ha fatto passare Luttazzi per un criminale) certe domande son destinate a rimanere aperte e senza risposta. Certamente, oggi, un satiro vive l’impasse più incredibile: quello di venir preso sul serio e ad esempio, poiché coloro che prende di mira sono meno credibili (e forse più comici) di lui. E’ successo con la politica, dove i vari Crozza e Brignano vengono issati a paladini della giustizia sociale perché parlano alla cosiddetta pancia del Paese senza mezzi termini (al contrario di ogni rappresentante di partito) riportando in voga concetti come parità di diritti e rispetto dei lavoratori, e continuerà ad accadere. Quando si incontra qualcuno capace di avvicinarsi talmente tanto al malcontento che pervade la realtà, al punto da suscitare un’ilarità liberatoria, allora scatta il consenso. Ecco perché si passa dai palazzetti alle piazze con la stessa credibilità.
Tuttavia, scagliarsi contro la classe politica non è più rivoluzionario come un tempo. Almeno in Italia, dove i paradossi hanno preso il posto delle parodie e proporre qualcosa di originale rimane sempre più arduo. C’è chi, infatti, prova a vagliare altre strade provocando dibattito circa la diversità di genere: troviamo chi cerca di sdoganare i pregiudizi sull’omosessualità con la sola forza di un sorriso – Paolo Poli è stato un precursore in questo –, chi combatte il razzismo a colpi di monologhi (Giobbe Covatta docet) e chi vuole eliminare certi tabù sulla disabilità. Coloro che portano avanti determinati intenti sono mosche bianche che volano in mezzo a tanta “pochezza”, garanzia del successo facile.
Una di queste mosche, che ronza su vari palchi da anni (più di venti), è David Anzalone. Attore e monologhista di professione che ha fatto della sua patologia quasi un vanto, o perlomeno qualcosa su cui scherzare (magari arrivando a porsi qualche domanda in più), come racconta: “D’estate i miei genitori mi mandavano in vacanza dalla nonna materna a Piticchio, un piccolo borgo medioevale, abitato perlopiù da anziani, nell’entroterra marchigiano. Ogni pomeriggio i nonnetti si radunavano in una piazzetta nei pressi delle mura. Mi sentivo i loro sguardi addosso. “Poverino, che disgrazia…”, mormoravano.
Pensai: vuoi vedere che stanno parlando di me? Ebbi uno scatto d’orgoglio: ma quale disgrazia, in fondo sono soltanto handicappato! Così decisi di andarmi a sedere proprio in mezzo a loro. Fuggifuggi generale. I pochi rimasti avevano l’espressione di chi pensa: “E ora? Lo guardo o faccio finta di niente?”. Finché un vecchietto prese coraggio ed esclamò: “Ma non è che per caso s’attacca?”. La “malattia”, intendeva. E io, di rimando: no, tranquillo, solamente se sputo. Ci fu un attimo di silenzio, poi tutti scoppiarono a ridere. In quel momento capii che con le risate potevo movimentare un po’ l’ambiente”.
Seguirono libri, come “Handicappato e carogna”, monologhi sferzanti e pungenti – tipo “Targato H” – che lo portarono anche su palchi prestigiosi: nei primi anni Duemila, era al fianco di Enrico Bertolino e rappresentava il “sottoproletariato dell’handicap” sul palco di Zelig Off. Purtroppo, nonostante la sua carriera pluridecennale, lo conoscono ancora in pochi. O meglio, non quanti meriterebbe. L’hanno sempre relegato in seconda serata, quasi terza, per via di quel vecchio retaggio secondo cui: “La disabilità in televisione è rischiosa, non si sa mai come il pubblico potrebbe reagire”. Si pensava lo stesso degli anziani, eppure adesso impazzano nelle Edicole televisive e sui troni di Mediaset. L’unico a proporlo in prima serata fu Fabio Fazio, nel 2010, durante il programma “Vieni via con me” e la sua performance venne accolta con successo.
Sono passati ormai sette anni da quel 22 Novembre, da allora sono stati abbattuti molti tabù: abbiamo visto la disabilità in prima serata e a Sanremo grazie a Carlo Conti, prima con Ezio Bosso, poi con i “Ladri di Carrozzelle”. La musica ha aperto le porte all’inclusione sociotelevisiva, è arrivato il momento di altro. Magari di sorridere (anche amaramente), visto che siamo tutti – o quasi – Charlie quando serve. Quindi, dato che Crozza all’Ariston non è stato all’altezza delle aspettative, chiamate Anzalone nel 2018: “Dopo tanti comici handicappati, ecco un handicappato che fa il comico”. Se lo dice lui, c’è da fidarsi.
Articolo di Andrea Desideri