L’avvento dello streaming ha permesso, negli ultimi tempi, l’affermarsi di realtà come Netflix – piattaforma Web su cui possiamo vedere numerose serie tv e pellicole – per garantire un’offerta di contenuti audiovisivi ancora più ricca. Guardare un film o una serie, spesso, può aiutare a comprendere le cose meglio di un libro di storia. Meglio non vuol dire necessariamente bene, significa soltanto che una storia, se vista da uno schermo del pc, arriva più direttamente e cattura l’interesse degli spettatori stimolandone la curiosità. E’ accaduto lo stesso a Pablo Escobar, il più noto e ricco narcotrafficante di sempre – conosciuto come “Re della cocaina” –, temutissimo criminale con un patrimonio stimato di oltre trenta miliardi di dollari nei primi anni Novanta. Soltanto a sentirne il nome dovremmo essere sconcertati, tuttavia la collettività ha iniziato ad interessarsi di lui parecchio tempo dopo. Non grazie ai libri che ha pubblicato Juan Sebastiàn Marroquìn Santos – suo figlio, che ora ha quarant’anni ed è riuscito a ricostruirsi una vita normale malgrado l’immagine paterna incomba pesantemente – ma per merito di “Narcos”.
La serie televisiva statunitense, creata da Chris Brancato, e resa disponibile in Rete con Netflix dal 28 agosto 2015, racconta la vita del trafficante colombiano. Un ritratto biografico che attinge al dramma e strizza l’occhio al noir, il prodotto è stato accolto da un successo inizialmente inatteso che si è presto tramutato in conferma: dopo le prime due stagioni, ne è in procinto una terza, e addirittura alcuni rumors parlano di una quarta. Ovviamente, i fruitori seriali hanno elevato Pablo Escobar a fautore di tormentoni – “Plata o plomo?” – piuttosto che collocarlo nelle pagine oscure della contemporaneità. Era già successo con Gomorra, che aveva saputo arginare abilmente gli stereotipi affrontando anche il binomio crimine-disabilità, stavolta però in cattedra è salito Escobar jr: “La serie ha fatto di mio padre un eroe, banalizzandone i crimini. Sono vivo per miracolo, ma cerco la pace”. Il rischio di banalizzare qualcosa, accostato alla serialità filmica, è dietro l’angolo. Soprattutto se veniamo a contatto con eventi criminali di così ampia portata. Pablo, come lo chiamano spesso amichevolmente nel corso degli episodi, ha dimostrato di saper maneggiare la cocaina con la stessa maestria con cui una nonna maneggia la farina doppio zero. Ciò che passa in secondo piano, specialmente dinnanzi ad uno schermo, non è la complessità e pericolosità legata ai meccanismi di spaccio che si legano forzatamente a certe sostanze, bensì la semplicità con cui si liquidano – per così dire – le questioni legate alla salute di un tossico. Non esiste droga che non abbia un qualche effetto duraturo sul nostro organismo, in particolare sul cervello e che sia priva di effetti collaterali. Ciò non implica che il fumare qualche spinello o l’assumere una pasticca di ecstasy danneggi irreversibilmente il sistema nervoso: ma l’uso ripetuto di molte droghe ritenute appena sotto la soglia di attenzione ha effetti che, in determinate situazioni, possono anche essere gravi, come nel caso di alcuni derivati dell’amfetamina che sembrerebbero favorire forme di Parkinson giovanile.
Infatti, se Pablo Escobar fosse vivo ancora oggi, sarebbe divorato dai dolori e dal morbo di Parkinson. Patologia che gli avrebbe reso difficile anche la gioventù, tant’è vero che il trattamento dell’abuso di cocaina, ancora oggi, è un campo aperto alla sperimentazione farmacologica; ultimamente sono state ad esempio proposte l’N-acetilcisteina o anche la cocaina esterasi. Un ulteriore possibilità futura nella terapia di questa dipendenza sembra essere offerta dalla selegilina. E’ questo un farmaco approvato per il trattamento del morbo di Parkinson perché capace di aumentare la dopamina impedendo il suo metabolismo.
Riguardo a tale patologia è interessante sottolineare come il suo trattamento, appunto con farmaci agonisti che aumentano la dopamina al fine di migliorare le difficoltà motorie, determini, in caso di sospensione o riduzione di questi, una chiara sindrome astinenziale dagli studiosi americani definita come DAWS (Dopamina Agonist Withdrawal Syndrome). I pazienti infatti soffrono di ansietà, attacchi di panico, depressione, nausea, dolore generalizzato, affaticamento e intenso desiderio di riavere il farmaco. Uno studio di fase I (su volontari sani) ha evidenziato l’assenza di interazioni farmacologiche tra la selegilina (somministrata come cerotto trans dermico) e la cocaina per infusione endovenosa. L’associazione non ha mostrato effetti collaterali seri, facendo sperare così in una combinazione farmaco terapeutica favorevole. Se nel proseguo degli studi i risultati saranno ancora positivi la selegilina, in un prossimo futuro, potrebbe essere impiegata per il trattamento farmacologico della dipendenza da cocaina.
La parabola di Pablo Escobar potrebbe aiutare a far luce su una serie (non televisiva, stavolta) di dipendenze ancora irrisolte. Purtroppo, però, il sentore collettivo è rivolto verso l’emulazione smodata: “Ci sono persone che mi scrivono sui social network, giovani che non conoscevano l’Escobar trafficante e terrorista e che dopo il successo della serie si pettinano o si vestono come lui” ha confessato il primogenito. Ogni idolo, o presunto tale, ha il proprio lato oscuro che non si ferma soltanto dinnanzi al probabile rischio di una fedina penale sporca. La tossicodipendenza è un canale senza ritorno che si mette direttamente in correlazione con patologie più gravi, dietro le luci della ribalta ed una vita agiata col perenne brivido del rischio, persino Escobar aveva i suoi acciacchi con cui conviveva. Sofferenze che potranno, forse, suonare come monito piuttosto che come incentivo.
Articolo di Andrea Desideri