Il fenomeno della violenza tra i minorenni impone una riflessione sui valori che i media veicolano e sul ruolo determinante dell’educazione
Lo scorso 4 maggio a Bologna un trentunenne con disabilità cognitiva è stato aggredito da una banda di minorenni. Attirato in disparte con la scusa di poter acquistare della marijuana, l’uomo è stato immobilizzato, picchiato e rapinato dei 70 euro che aveva nel portafogli. A quattro giorni di distanza, incrociati tre dei suoi aggressori, con l’inganno di poter riavere indietro i soldi sottratti, il trentunenne è stato aggredito una seconda volta, riuscendo a divincolarsi.
Le aggressioni si sono ripetute quasi senza soluzione di continuità, testimoniando che nella mente dei criminali non balenavano né l’idea di pentimento né tantomeno il timore di incorrere in una sanzione e rendendo realistica l’ipotesi che gli episodi di violenza si sarebbero ripetuti se la vittima non avesse contattato le autorità. L’incredibile età dei criminali, tutti minorenni, e la condizione di svantaggio della vittima rendono il crimine ancora più odioso e rimandano a un caso simile, quello, cioè, delle terribili torture subite per mesi da Antonio Cosimo Stano, il sessantaseienne con disabilità morto il 23 aprile scorso a Manduria, nella propria abitazione a seguito di torture inferte da otto giovani, sei dei quali minorenni.
L’atrocità dei delitti, unita al fatto che a metterli in atto siano bande di ragazzi, denuncia la necessità di avviare riflessioni trasversali sul fenomeno delle baby gang: lo studio di giovani criminali dalla personalità sadica e delle cosiddette forme di sadismo collettivo, che prende di mira soggetti fragili o minoranze traendone compiacimento, non deve cedere alla semplicistica spiegazione che la noia e il bar del paese non offrano alternative legali all’irrequietezza di adolescenti senza hobby. Appurato poi che, anche in condizioni di benessere economico e stabilità familiare, giovani apparentemente tranquilli compensino un loro senso d’inferiorità con rabbia e aggressività, un ragionamento complesso ha il dovere confrontarsi con le ragioni sociali e storiche che fanno sì che sia diminuita, in particolare tra i giovani, la percezione del limite e di una Legge che condanni tali comportamenti. Mentre la famiglia e la scuola perdono il loro ruolo educativo, i ragazzi vengono adottati da televisione e Internet, ricevendo stimoli su una ristretta gamma di argomenti e assorbendone il linguaggio escludente. Il confronto, sulle reti sociali o nella realtà, ha spesso le forme di uno scontro verbale per determinare chi è più forte a parole, al di là della veridicità o meno della tesi che si sta esprimendo, sdoganando termini, concetti e atteggiamenti violenti che ne incoraggiano una riproduzione anche nella vita reale. In questo disorientamento di sistema di valori, coltivare e diffondere l’importanza di un pensiero critico, oltre che etico, appare così come un primo importante passo per affrontare la violenza dei nostri tempi.
Articolo di Irene Tartaglia