Perché i giovani d’oggi dovrebbero conoscere Aldo Moro? Ce lo spiega l’analista politico Giorgio Benigni, da noi intervistato
Quarant’anni fa moriva Aldo Moro, dopo cinquantacinque giorni di prigionia, per mano delle Brigate Rosse. Ricordiamo e approfondiamo la sua figura con Giorgio Benigni, analista e consigliere politico, che ha lavorato col gruppo parlamentare del Partito Democratico e nel governo Prodi tra il 2006 e il 2008, ha diretto la rivista online www.gazebos.it e sta concludendo il dottorato in Diritto Costituzionale Comparato presso l’Università La Sapienza di Roma.
Chi era Aldo Moro, al di là del “Caso Moro”?
“Questa domanda mi fa molto piacere perché molti hanno una sola immagine di Moro: la Renault 4 rossa in via Gaetani col suo corpo esanime. Ma Moro era una persona che parlava, camminava e ha ricoperto dei ruoli notevoli nella vita politica italiana e nel dopoguerra, uno degli autori della ricostruzione. Ci tengo a dire che era stato formato negli anni Trenta nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana, da quello che poi sarebbe diventato Paolo VI. E proprio Paolo VI avrebbe avuto poi anche un ruolo controverso proprio durante i giorni del sequestro. Moro si era laureato in Diritto e aveva insegnato Filosofia del Diritto a La Sapienza, anche se l’ultima cattedra ricoperta in realtà era una cattedra ad hoc: Politica e Diritto Penale, che non è sopravvissuta a lui. Ed è paradossale che proprio un pensatore del rapporto tra diritto penale e politica, abbia dovuto subire un processo politico totalmente ingiusto come quello che ha subito da parte le Brigate Rosse. È stato Presidente del Consiglio e Segretario della Democrazia Cristiana e quando è stato sequestrato e poi assassinato era Presidente della Democrazia Cristiana. Non era il Segretario, ma in realtà era il vero capo politico del partito cattolico, colui che deteneva un progetto politico, non solo per quel partito, ma per tutto il paese”.
Per i giovani di oggi forse non è chiarissimo il clima che si viveva in quegli anni. Perché si parla di compromesso storico? Cosa stava per accadere di completamente nuovo nel panorama politico italiano?
“Moro negli anni Sessanta da segretario della Democrazia Cristiana guida quella che si chiama l’apertura a sinistra. Cioè l’ingresso del Partito Socialista, ancora un partito ideologicamente a matrice atea e marxista, nell’area di governo. Questo processo lui lo chiama ‘allargamento della base democratica dello Stato’. Poi arriva il ’68 e cambiano parecchie cose. Moro è uno dei pochi democristiani a interrogarsi su cosa rappresenti il ’68: andava alle assemblee dei giovani, li ascoltava e ci sono innumerevoli aneddoti su questi aspetti. E proprio a partire dal ‘68 il Partito Comunista cresce nei consensi arrivando alle politiche del 1976 a ottenere il 35% dei voti; insieme alla Democrazia Cristiana, hanno praticamente il 75% del Parlamento (a proposito di ‘vincitori delle elezioni’, come si dice adesso). Effettivamente, quelle elezioni furono chiamate le elezioni dei due vincitori, perché crebbe sia la Democrazia Cristiana e sia il Partito Comunista, che raggiunse il suo massimo storico. A quel punto Moro si rende conto che non è possibile mantenere i comunisti fuori dalla gestione dello Stato.
Questa è l’idea di Moro di democrazia. Lui era figlio di un preside; questa è una cosa importante perché non è un cattolico che crede che lo Stato sia il nemico. No, lui è un cattolico che pensa che la libertà è il primo compito della politica. E lo Stato non è il nemico della Libertà. Lo Stato, per esempio attraverso la pubblica istruzione, alfabetizzando rende le persone più libere, nel senso che offre strumenti maggiori per sentirsi liberi. Quindi, se più persone possono riconoscersi nello Stato, il senso di libertà di ciascuno viene massimizzato: questo è il senso e lo scopo dell’azione politica”.
Perché un giovane d’oggi dovrebbe avere consapevolezza di queste storie e conoscere chi era Aldo Moro?
“Se pensiamo agli incontri del ’77 tra Moro e Berlinguer – basta andare su YouTube o su Google -, in cui ci fu una memorabile stretta di mano, se pensiamo al famoso discorso di Moro a Benevento nel ’77, in cui raccontava di aver scoperto delle radici profonde, valoriali, comuni negli altri, che sarebbero i comunisti, ci rendiamo conto che c’è politica quando c’è incontro, ma questo incontro dovrebbe avere presupposti valoriali, culturali, antropologici, politici, ma anche prepolitici. Adesso noi assistiamo a leader che si telefonano tutti i giorni ma non c’è un vero riconoscimento reciproco, ci sono tatticismi estenuanti e soprattutto non c’è un’idea di Paese su cui confrontarsi e discutere; in gioco c’è esclusivamente il loro destino personale. Quando Moro e Berlinguer si sono stretti la mano con l’idea di fare il Governo della Solidarietà Nazionale, non avevano a cuore i destini personali, avevano a cuore il destino dell’Italia. Questa mi sembra una della più grosse differenze tra quel periodo e questo. E quindi un giovane che ha un’immagine fissa e non vitale di Moro può risentire l’ultimo suo discorso ai gruppi Parlamentari, che di fatto è stato il suo testamento politico. Lo dico perché in quel discorso lui fa un quadro dell’Italia e in questo quadro di fatto si candida alla Presidenza della Repubblica. Voi pensate quanto è centrale – e lo vediamo in questi giorni – negli equilibri politici della nostra democrazia e della nostra Costituzione- il ruolo del Presidente della Repubblica; le Brigate Rosse hanno ammazzato quello che sarebbe diventato di lì a pochi mesi il prossimo Presidente della Repubblica. Questo è un fatto che ha cambiato la storia d’Italia. Spero che i giovani, conoscendo questa figura attraverso le sue parole, riescano a ritrovare quella passione, quell’idea di politica come servizio alla libertà della persona che Moro ha incarnato fino alla fine”.
Articolo di Massimo Guitarrini