“La carica dei 104” (il numero ricorda la legge che tutela i diritti delle persone con disabilità). Una rubrica che, mensilmente, intende fornire ritratti di personalità che non si sono abbattute e, superando ogni avversità, hanno raggiunto il successo in ogni campo: arte, cultura, sport, spettacolo. Speriamo che questa raccolta di storie sia di buon auspicio per tanti, giovani e adulti, che non riescono ancora a trovare la forza di emanciparsi. Andrea Desideri, che curerà questo spazio, racconta il cantautore italiano Pierangelo Bertoli.
Molto spesso si ascoltano canzoni senza ricordarne il titolo, ci si ritrova a canticchiare un ritornello distrattamente, senza pensare troppo al nome. Così, quasi casualmente, quando capita di dover indicare un cantautore, lo facciamo attraverso una sua peculiarità che quasi sempre non è la voce: Elvis è quello col ciuffo, Iva Zanicchi è l’aquila di Ligonchio, Caterina Caselli è il caschetto d’oro, Gianni Morandi è l’eterno ragazzo di Monghidoro, mentre Pierangelo Bertoli è “quel tizio in carrozzella”. Ciò che può sembrare un luogo comune, quasi banale, finisce col diventare calzante e identificativo. Pierangelo Bertoli era – e resta – il cantautore che amava schierarsi attraverso brani che rispecchiassero un’idea sociale e culturale del nostro Paese, mettendoci la voce – e quindi, anche la faccia – perciò l’idea di considerarlo inizialmente soltanto per la sua particolarità (quella di esibirsi da seduto) più lampante sarà stata null’altro che uno sprone per confrontarsi nuovamente “a muso duro” con la quotidianità. Si parla poco, oggi, perlomeno non abbastanza, della sua fissazione – quasi patologica – di ricercare l’arte cantautorale esclusivamente entro certe prerogative: “Il cantautore, etichetta di moda all’epoca, o era davvero impegnato sulla carne viva della società o tale non era. Nella sua filosofia, il cantautore era l’antenna di una comunità. Aveva l’obbligo di percepire il cambiamento, anticipandolo. Poi l’interpretazione del mutamento era libera, ma o ti buttavi nella mischia o non gli interessavi”. Per questo, quasi nessuno gli andava a genio, come se tutti convivessero con diverse disabilità che non sapevano di avere: quindi, De Gregori era troppo ermetico, Baglioni e Vecchioni banali e Lucio Dalla “bravino”, peccato che esagerasse con le tonalità in minore. Proprio come Pino Daniele. Amava i Beatles per il loro piglio rivoluzionario, Frank Sinatra e sé stesso.
Pochi ma buoni, tuttavia non si negava a nessuno. Aveva una parola, uno spunto, per chiunque. Vasco Rossi e Ligabue in special modo, entrambi – accumunati oggi (a torto o ragione) da una presunta rivalità mediatica – condividevano anche l’amicizia con Bertoli che li ha praticamente tenuti a battesimo: “Luciano aveva da poco perso il padre. Come tutti elaborava il lutto riflettendo sul senso della vita, lo scorrere del tempo, la malinconia che ci assale quando ci rendiamo conto di essere esposti a mutamenti che non possiamo contrastare. E stava preparando una canzone da incidere insieme a Bertoli. (..) Si sentirono al telefono e fu un dialogo molto intenso, sincero. Il brano si intitola Le cose cambiano, il progetto andò avanti ma poi Angelo si ammalò e non ci fu più il tempo. Comunque Le cose cambiano è stata poi incisa da Alberto, il figlio di Angelo”. Con Vasco, invece, lo lega un concerto: “Eravamo verso la fine degli anni Settanta e Rossi aveva ottenuto la prima notorietà con Albachiara. Noi eravamo in tour, dovevamo esibirci a Lido di Spina e il gruppo che cantava prima di noi era quello di Vasco”. A svelare tutto questo è Marco Dieci, chitarrista, pianista e amico intimo di Pierangelo che ha raccolto una chiacchierata e diverse testimonianze in un libro – “Eppure Angelo canta ancora” di Incontri editrice – dove emerge l’artista Bertoli, seguito dall’uomo Pierangelo, con le sue paure, sicurezze e punti di forza. Le due figure collimano (quasi sempre) quando c’è un microfono davanti.
Bertoli, sia musicalmente che nella vita, odiava i compromessi. Quindi, non ha mai voluto riciclarsi cavalcando tematiche “facili” per il successo quali l’amore e il romanticismo. Eppure ha amato, tanto, eppure ha vissuto molto. Appieno. Senza sconti, con qualche difficoltà in più che non era rappresentata dalla sua condizione fisica: “Alfredo Cerruti, che era il manager della CGD quando Angelo incideva per loro, insisteva sempre: ma perché non canti brani d’amore? Tra l’altro Angelo sapeva farlo magnificamente, pensa a Per dirti t’amo, un classico del suo repertorio più antico. Lui commentò la richiesta così: certo che mi vogliono per pezzi sentimentali, in un paese dove è andato primo in classifica Alan Sorrenti con Tu sei l’unica donna per me, con quel suo timbro di voce!”.
Possedeva una componente ruvida che era molto vicino alla schiettezza, ma in realtà con le sue verità controverse ed esaurienti (secondo lui) si difendeva da un Paese che non capiva completamente. Divenne famoso grazie a Sanremo, un po’ la stessa sorte che toccò a Rino Gaetano, in un contesto così distante dalla sua morale. La musica unisce, abbatte e separa, ma non è mai eterogenea. Alcune scelte gli restarono sempre indigeste: “Certi momenti trattava il tema dell’aborto, A muso duro fu il suo no forte e chiaro allo show business. Ma duettò anche con molte cantanti e Pescatore cantata con Fiorella Mannoia divenne talmente celebre che una volta mentre viaggiava in aereo sentì due signore che parlavano di lui”. Infatti, di Bertoli si dovrebbe continuare a parlare, elogiando una voce potente, decisa, quell’insaziabile voglia di libertà e follia intellettiva che l’hanno reso un cantautore severo – in parte – e scomodo. Non per come era seduto.
Articolo di Andrea Desideri