Parlare di femminicidio in un periodo come questo, quando abbiamo ancora negli occhi gli attentati di Parigi, potrebbe risultare banale e semplicistico. Quel tipo di banalità a cui fa riferimento Hannah Arendt quando dice che il male non può mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possiede né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. Stiamo vivendo un momento storico in cui, purtroppo, la violenza è all’ordine del giorno ed è arrivata anche ad imporsi prepotentemente attraverso i social media. Basti pensare che i terroristi rivendicano gli attentati tramite un profilo Twitter. Quindi, ci troviamo nella situazione in cui distinguere e discernere il concetto di violenza, attraverso sesso, razza o religione diventa difficile e a tratti perfino inutile. Proprio perché il terrore oramai si è insidiato in pertugi insospettabili da risultare routine. Parola che, non a caso, è di origine francese.
In questo caos generato dall’odio, figlio della paura, la mente – parlando di donne – non può che andare a Valeria Solesin. Una ricercatrice che amava il proprio lavoro, le piaceva ciò che studiava, e forse aveva l’unica colpa di avere la passione per l’heavy metal, che condivideva con il ragazzo. Quella passione le è stata fatale, a sua insaputa. Perdere la vita durante un concerto, a soli ventotto anni, è ingiusto. La forma di violenza più grande che possa esserci, morire quando stai vivendo un momento felice. Forse questo accomuna milioni di donne a Valeria, quell’aspetto della violenza che non necessariamente conduce alla morte, ma si presenta in maniera inaspettata. Magari nasce da un momento pacato e rilassante, che si trasforma poi nel preludio della disgrazia. Valeria abbiamo imparato a conoscerla in questi giorni, in cui si sentono un po’ tutti francesi – nonostante la scelleratezza non possegga colori o bandiere –, ma sono ancora tante le donne vittime di violenza di cui non sappiamo nulla. Il 62,7% di casi in Italia, se vogliamo parlare di numeri. Quotidianamente, ormai, ognuno di noi può vedere in maniera tangibile sgretolarsi l’etica della convivenza civile attraverso piccoli gesti. Per dire, recentemente, abbiamo riscoperto l’interesse per la geopolitica tornando a parlare di Isis, Islam, pubblicando ovunque frasi e opinioni in tal senso. Ci siamo ritrovati ad essere cultori di Oriana fallaci, altra donna che – a torto o ragione – era riuscita a imporre una visione differente su molti aspetti ma viene ricordata solo per le riflessioni sull’oriente e i musulmani, perché ora è facile attaccarli e schierarsi su un versante piuttosto che un altro. Quando, però, la stessa donna nel 1975 parlava di aborto – inteso come possibile scelta per una madre – veniva attaccata da opinione pubblica e politica italiana in blocco. Tutti parlano di tutto, ma ricordano poco, e quando lo fanno è troppo tardi. Ecco perché l’etica viene a mancare, perché c’è poca riflessione su ciò che accade intorno a noi. Vale per la violenza terroristica, che c’è sempre stata da parte dell’Isis, come per la violenza carnale che è una piaga presente non da oggi. Va talmente tutto troppo veloce che per stare al passo coi tempi e fare i tuttologi di turno ci si dimentica di cose che abbiamo vissuto e metabolizzato precocemente. Chiara Insidioso, altro nome che le cronache hanno rimosso rapidamente per far posto alle novità, che rischia di cadere nell’oblio in poche settimane. Nonostante abbia subito una violenza che l’ha ridotta su una sedia a ruote a soli ventuno anni e, come risarcimento, ha visto ridurre di quattro anni il fine pena del suo aggressore. E’ proprio questa la dignità che manca al nostro Paese: per permettere che certe cose non accadano più, occorre informarsi e stare sul pezzo (per usare un termine ricorrente) più di qualche giorno. Non possiamo passare la nostra esistenza ad essere una settimana esperti di moto, quella dopo fruitori di politica internazionale, e quella dopo ancora esperti di terrorismo a seconda di cosa tira di più. Manca la cultura dell’approfondimento: come si può parlare di inclusione e pari opportunità se neanche si conoscono le basi di un problema?
La banalità del male trae linfa proprio dall’ignoranza, se persino quando si affrontano casi di cronaca nera – come ad esempio una violenza domestica – c’è spazio per lo show della morbosità in nome dell’audience, come possiamo sperare di arginare una piaga sociale? Soltanto attraverso la conoscenza, che si acquisisce con il tempo e l’analisi veritiera delle fonti, le quali andranno a disposizione di chi vorrà prestare maggior attenzione rispetto al mare magnum in cui galleggia la superficialità. I piccoli gesti nel quotidiano possono aiutare nella diffusione, un incontro è diverso da uno spettacolo, uno scambio è diverso dalla semplice baruffa, un’analisi è differente da una presa di posizione. Proprio per questo, quando assistiamo ad una violenza di qualsiasi tipo, non fermiamoci all’immediatezza degli accadimenti ma cerchiamo di andare in profondità e dare adito a nuove prospettive di uno stesso evento. Il sangue si lava, i lividi se ne vanno, i morti purtroppo – alla lunga – si dimenticano. Quel che resta è l’amarezza che si portano dietro. Per far sì che questa amarezza venga arginata, occorre rispondere con la cultura. Seria, approfondita, e capillare. Non quella da bar, populista, su cui molti fanno giogo per conquistare un facile consenso a scapito delle coscienze. Per Valeria, per Chiara, e per tutti coloro che hanno sperato e continuano a sperare che il futuro sia migliore malgrado le avversità.