Il 14 dicembre si è tenuto il Congresso dell’Associazione “Diritti alla Follia”. Condivido con voi l’approfondimento che ho redatto per quell’occasione sul diritto all’uguale riconoscimento davanti alla legge
L’articolo 12 della CRPD riafferma il diritto delle persone con disabilità all’uguale riconoscimento davanti alla legge. Questo diritto è stato già espresso da precedenti strumenti del diritto internazionale dei diritti umani, ai quali la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità non deroga, ma semplicemente esplicita le azioni specifiche che gli Stati devono mettere in atto per garantire alle persone con disabilità questo diritto umano. Il diritto all’uguale riconoscimento davanti alla legge è inerente alla dignità di ogni essere umano ed è collegato al principio di non discriminazione. Questo diritto non accetta restrizioni sulla base della disabilità, neppure in situazioni di emergenza. Esso si sostanzia nel fatto di essere titolari di diritti e doveri (capacità giuridica o legal standing) e nel potere di istituire, modificare e sciogliere rapporti giuridici, ovvero nella possibilità di agire concretamente, con azioni legalmente valide, in relazione ai propri desideri e alle proprie volontà. Il riconoscimento di tale diritto e l’effettiva possibilità di esercitarlo sono strettamente interconnessi con il godimento reale degli altri diritti umani. Ad esempio, il diritto alla legal capacity è essenziale per il diritto alla vita indipendente, quello di far parte, in modo attivo, della società in cui si vive, il diritto alla famiglia, quello di esprimere il consenso ai trattamenti medici e il diritto di voto. Nessuno di questi diritti è garantito se non lo è quello di essere riconosciuti come soggetto giuridico con capacità d’agire. Senza tale riconoscimento, infatti, una persona non può sposarsi, non può comprare una casa, non può determinarsi e dare vita a rapporti giuridici né difendere i propri interessi in tribunale.Come nota il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità nel suo primo Commento Generale, molti degli Stati parte, basandosi sulla valutazione delle capacità nella presa delle decisioni o “mental capacity”, concetto discriminatorio e controverso, non riconoscono alle persone con disabilità, soprattutto nel caso in cui sia presente una compromissione intellettiva o cognitiva, la capacità d’agire, mettendo in atto meccanismi di sostituzione nella presa delle decisioni che impediscono alla persona di esprimere ed attuare i propri desideri. Anche il Forum Europeo della Disabilità, nel suo recente Rapporto sulla capacità d’agire, evidenzia come nessuno dei 27 paesi UE abbia provveduto a realizzare quanto richiesto dalla Convenzione ONU del 2006, mantenendo ancora in essere istituti giuridici per i quali le persone con disabilità non possono decidere per sé stesse, ma sono sostituite nella presa delle decisioni sulla loro vita da rappresentanti che agiscono secondo il principio del “miglior interesse della persona rappresentata.” La reale attuazione del diritto delle persone con disabilità all’uguale riconoscimento davanti alla legge impone agli Stati membri di assicurare loro l’utilizzo di meccanismi di supporto nella presa delle loro decisioni, decisioni a cui deve essere riconosciuto effettivo valore legale. Il succitato articolo 12 della CRPD, così come chiarito dal già menzionato Comitato ONU, stabilisce che tali supporti e sostegni nella formulazione delle decisioni debbano essere strutturati in modo tale da garantire il rispetto delle volontà e dei desideri della persona che ne usufruisce. Ulteriormente, prevede che i sostegni forniti siano di vario tipo: possono essere costituiti, per esempio, dal supporto di una o più persone fidate della persona con disabilità, dal supporto alla pari o assistenza alla comunicazione, dalla possibilità di pianificare le proprie decisioni, in vista di un futuro in cui non le si potrà più esprimere, potendo anche stabilire quando tale piano debba entrare in vigore.Secondo quanto espresso dalla Convenzione sui Diritti delle Persone con disabilità, quindi, è necessario un cambio completo di paradigma che si basi sulla capacità d’agire universale, riconoscendo la non correttezza della distinzione tra persone “incapaci” e capaci di effettuare scelte riguardo a sé stesse e ai propri interessi, perché ciascun essere umano ha diritto alle proprie scelte. Gli Stati devono di conseguenza realizzare un sistema che permetta alla persona di autodeterminarsi, ricevendo un livello di supporto adatto per le sue volontà e necessità, e che allo stesso tempo la tuteli e la protegga da abusi, discriminazioni e indebite influenze. In questo senso, è necessario che, nelle circostanze in cui non sia possibile determinare la volontà della persona con disabilità, il principio guida del “migliore interesse della persona” sia sostituito dal “principio della migliore interpretazione della volontà e delle preferenze dell’individuo supportato.” Sempre a scopo di protezione, la Convenzione richiede che sia previsto un meccanismo di controllo imparziale sul rispetto effettivo della volontà della persona con disabilità da parte di colui che l’assiste nella presa delle decisioni, e che la persona beneficiaria possa decidere in qualunque momento, e in autonomia, di interrompere il sostegno.
Per attuare il diritto all’uguale riconoscimento dinanzi alla legge è necessario, per di più, che l’accesso agli strumenti di supporto alle decisioni sia volontario, che il suo godimento non costi nulla alla persona che ne beneficia, che esso non sia negato per ragioni economiche, e che sia stabilito per legge che l’uso di sostegno nella presa delle decisioni non sia fonte di limiti nell’esercizio di altri diritti e delle libertà fondamentali.
In Italia, abbiamo tre istituti di protezione giuridica indirizzati, secondo le norme, a coloro che si trovano in una situazione di “infermità mentale”, “incapacità attenuata” o “impossibilità di provvedere ai propri interessi”. Ognuno di questi tre meccanismi giuridici, ovvero: l’interdizione, l’inabilitazione e l’amministrazione di sostegno, si sostituisce, a gradi differenti, alla persona che ne è destinataria nella presa delle decisioni. Anche l’amministratore di sostegno, sebbene introdotto nel 2004 con la ratio di creare uno strumento di sostegno alle decisioni in ambiti indicati caso per caso dal giudice, rivolto a persone “impossibilitate a curare i propri interessi” ma considerate capaci di intendere e di volere, da un punto di vista giuridico si è tradotto molto spesso in una reale sostituzione della persona nella formulazione delle scelte sulla sua vita. Ciò è dovuto a una mancata formazione dei professionisti del mondo giuridico sulle modalità comunicative accessibili, e anche a un vuoto normativo riguardante i modi in cui la persona destinataria dell’amministrazione possa comunicare all’amministratore le proprie volontà. Inoltre, così come succede anche nella maggior parte dei paesi europei, anche nel nostro ordinamento è previsto che il rappresentante della persona segua il “principio del migliore interesse” e non quello che richiede di rispettare il più possibile le volontà del rappresentato. Va inoltre sottolineato che frequentemente i costi dell’amministrazione e della verifica specializzata di tali attività d’amministrazione sono posti a carico della persona beneficiaria dell’istituto di protezione giuridica.
Si deve quindi modificare il sistema attuale, modifica raccomandata, tra l’altro, al nostro paese dal Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità. Si dovrebbe creare un sistema in cui la persona con disabilità sia libera di autodeterminarsi, potendo mettere per iscritto e “in anticipo” le proprie volontà, desideri e preferenze, e in cui i professionisti e coloro che assumono l’incarico non si sostituiscano alla persona, ma la sostengano e la aiutino nelle sue scelte. Questi dovrebbero essere adeguatamente formati e vincolati nelle proprie funzioni di supporto dal principio della migliore interpretazione delle volontà e delle preferenze della persona. Solo così si potrà realmente implementare il modello della disabilità espresso nella CRPD, che a differenza di quello medico, riconosce alla persona con disabilità diritti e doveri su un piano di uguaglianza con gli altri e vede la disabilità come condizione derivante da un ambiente pieno di barriere culturali, fisiche, sensoriali e comunicative. Una persona senza la possibilità di autodeterminarsi davanti e per la legge non avrà mai il controllo sulla propria vita e non potrà mai essere un componente attivo della propria comunità. In aggiunta, proprio perché i diritti umani sono collegati tra di loro a doppio filo e la violazione di uno di essi è fonte del diniego degli altri, si devono garantire tutte le altre previsioni della Convenzione ONU sui Diritti delle persone con disabilità, assicurando, per esempio, che gli istituti e le procedure finanziarie siano accessibili, che le informazioni siano disponibili in vari formati che le rendano usufruibili e comprensibili da tutti.
Il contributo è già apparso sul portale Superando
(Elisa Marino)