Iran: l’hijab è solo la punta di un iceberg fatto di misoginia e costrizioni religiose
Nel Corano un solo versetto si riferisce al cosiddetto “hijab”. La sua interpretazione per alcuni studiosi islamici è quella di un velo che copre la testa; per molti altri, di uno scialle per coprire spalle, seni e gioielli. Eppure, una grandissima stratificazione culturale e soprattutto sociale si è creata intorno all’uso dell’hijab, culminata con gli scontri delle ultime settimane e la morte di molti iraniani.
Mahsa Amini, Hadis Najafi, Nika Shakarami e adesso Sarina Esmailzadeh sono quattro ragazze con un’età compresa fra i sedici e i ventidue anni, che da metà settembre hanno perso la vita. La loro colpa? Mahsa era in visita a Teheran con la sua famiglia, ma l’hijab era mal posizionato, delle piccole ciocche di capelli erano visibili. Hadis, soprannominata “la ragazza con la coda” perché per protesta della morte di Mahsa, era scesa in piazza legandosi i suoi “vistosi” capelli biondi in una morbida coda. Nika è morta diciassettenne perché ha cantato una canzone su di un palco senza il velo durante le proteste. Sarina, l’ultima della serie, faceva dei video, parlava della difficile situazione del suo paese mostrandosi dalla telecamera del proprio smartphone senza velo e partecipava alle proteste. Mahsa, Hadis, Nika e Sarina sono diventate il simbolo di questa lotta interna, ma tanti altri, giovanissimi, stanno perdendo la propria vita.
Le proteste da quel 20 settembre scorso non si sono in realtà mai placate. Nonostante si stia innestando una spirale di violenza infinita, i giovani iraniani e non solo, non riescono più a rispettare certe regole imposte, che forse, con l’avanzare della società, stanno cambiando. Non solo le donne stanno protestando in piazza, mostrandosi senza il velo o tagliandosi una ciocca di capelli in pubblico, anche molti uomini si sono uniti alle proteste. Nell’occhio del ciclone la polizia religiosa: un organo statale che si occupa di far rispettare, con ogni metodo, il decoro nazionale. La polizia ha inoltre reso disponibili in queste ore le autopsie sul corpo delle ragazze: Mahsa non sarebbe morta per le percosse, ma per un vecchio tumore di cui la famiglia non era a conoscenza, che l’avrebbe portata alla caduta e alla conseguente morte per “insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale”, mentre si trovava in custodia cautelare. Nika è caduta da un palazzo molto alto, nonostante il cranio vistosamente spaccato da un oggetto contundente. Sarina, invece, sempre a detta della polizia locale, si sarebbe suicidata.
Una luce si è accesa sul mondo musulmano. La vicenda delle ragazze iraniane uccise e delle proteste non sta passando inosservata nel resto del mondo e in molte si sono uniti al gesto simbolico di queste donne, tagliandosi una ciocca di capelli. Dalla nostrana Claudia Gerini a Juliette Binoche. Meglio tardi che mai, anche se la condizione delle donne è praticamente rimasta immutata dall’introduzione del velo obbligatorio nel 1979. Un forte scossone è sicuramente stato avvertito dal ritiro delle truppe militari americane in Afghanistan nel 2021, che da un piccolo spiraglio di libertà, instabile, che perdurava da vent’anni, ha riconsegnato il paese in mano ai talebani, movimento politico e religioso fondamentalista, che ha stretto ancora più la cinghia sulle regole comportamentali da seguire. Ma i tempi sono cambiati e i ragazzi e le ragazze mediorientali in questi vent’anni hanno avuto l’occasione di informarsi e la tecnologia li ha portati a conoscere il resto del mondo. Quella che sta protestando è la generazione Z, quella comune a ogni nazione, molto più unita e cosciente delle generazioni precedenti. È tempo che quello islamico non venga più narrato come popolo di persone esclusivamente fondamentaliste, perché ci sono anche persone che stanno cercando di autodeterminarsi, mentre il mondo resta a guardare.
Abbiamo chiesto un intervento sulla questione hijab a Irene Tartaglia, responsabile comunicazione interna dell’Uaar Uaar (Unione Atei Agnostici Razionalisti), che osserva: “I sistemi normativi comportamentali religiosi, dalle indicazioni sul vestiario, alle regole alimentari alle norme sulle abitudini sessuali, hanno raramente uno scopo concretamente opportuno nella vita reale. Questo tipo di precetti religiosi, oltre che apparentemente poco sensati, talvolta invita i fedeli a comportamenti rischiosi e irresponsabili. Un esempio è la condanna dei metodi contraccettivi, indispensabili per prevenire gravidanze indesiderate, nonché malattie sessualmente trasmissibili. In altri casi le norme comportamentali religiose si dimostrano violente nei riguardi della persona e della sua identità, come per esempio le regole che ostacolano l’autodeterminazione sessuale e di genere, condannando qualunque forma di orientamento ed espressione non conforme alle definizioni binarie ed eterosessuali tipiche del sistema patriarcale. Scopo di questi precetti è quello di ingabbiare i propri fedeli in un sistema di regole difficili da rispettare, allo scopo di contrarre un debito da parte loro”.
Sul ruolo della donna, Tartaglia aggiunge: “Tutte le religioni monoteiste sono fortemente misogine e contribuiscono a ostacolare una reale parità di genere in tutto il mondo, attribuendo al genere femminile un ruolo subalterno. Dalle settantadue vergini che attendono i buoni mussulmani in paradiso, all’illibata Maria dei cattolici, la donna è sempre oggetto di proprietà dell’uomo, limitato al ruolo di generatrice di prole, già nei tempi in cui erano gli antichi romani a pregare, celebrata per la sua illibatezza e castigata nell’abbigliamento fin dalla tenera età. Il cristianesimo raffigura spesso le donne con il capo velato e le stesse suore indossano il velo. Anche nell’ebraismo è obbligatorio coprirsi il capo all’interno della sinagoga. Il velo più noto – burqa, chador, hijab, niqab – è quello che devono indossare le donne islamiche, ma non cambia la sostanza se il divieto di mostrarsi si rivolge a tutto il corpo femminile o si limita a parte di esso, ai seni o ai gioielli, oppure se si dimostri inflessibile persino con ciocche ribelli. Oggi l’obbligo di coprirsi la testa non può più considerarsi accettabile perché in contrasto con diritti fondamentali, quali la succitata parità tra uomo e donna. Proprio per questo motivo, però, risulta una domanda retorica chiedersi se una donna decida volontariamente di coprirsi il capo. Mentre religione e patriarcato si intrecciano in una morsa che rinforza entrambi e stritola le donne, la laicità si pone come l’unica condizione in grado di consentire una coesistenza pluralistica di diverse espressioni religiose, e più in generale alle diverse visioni del mondo. Sì, dunque, alla libertà di religione purché entro i princìpi inderogabili in nome di alcun dio, senza cedere alla moda multiculturalista che, in nome di un dovuto rispetto delle identità delle diverse componenti etniche, religiose e culturali di una società, dimentica che le persone sono sempre portatrici di diritti”, conclude Irene Tartaglia sull’utilizzo del velo.
E noi occidentali, come possiamo mentire alle donne iraniane? Nonostante i filtri usati dal governo, è relativamente semplice affacciarsi alla nostra vita di tutti i giorni. Loro sanno che nei nostri paesi è permessa la libertà, una formazione e nessuna costrizione in quanto donna, ma solo in quanto essere umano. Come possiamo mentire quando dai loro smartphone scorrono le vite di donne che hanno avuto, al loro confronto, il privilegio di poter filmare la propria giornata, fatta di divertimento, lavoro, esperienze e uscite con gli amici? Tagliarsi una ciocca di capelli è un bel gesto di solidarietà, ma i capelli si sa, ricrescono velocemente.
(Angelica Irene Giordano)