Warhol e gli altri, tra esaltazione e denuncia dello stile di vita contemporaneo
Quando nel 1965 la Pop Art sbarca alla biennale di Venezia, sconvolgendo gli animi e rivelando all’Europa l’esistenza di una peculiare espressione artistica americana, negli Usa il dibattito sul tema del rapporto tra arte e cultura di massa era già maturo.
Fin dagli anni Cinquanta, nel pieno boom economico americano, si afferma lo stile di vita contemporaneo, basato sul consumismo e la cultura di massa. La comunicazione pubblicitaria, attraverso i nuovi media, opera una modificazione dei temi e delle modalità espressive degli artisti, che devono misurarsi col nuovo contesto di vita e con i nuovi meccanismi della cosiddetta industria culturale, prefigurata già alla fine degli anni Quaranta dai filosofi della scuola di Francoforte*. Il movimento New-dada pone il problema della definizione del rapporto tra oggetto comune e opera d’arte. Sono lontani i tempi in cui nell’armadio dell’uomo comune c’erano solo due vestiti, quello per tutti i giorni e quello della festa: la produzione industriale procede a ritmi sostenutissimi, il prodotto deve essere commercializzato, la pubblicità deve contribuire alla sua diffusione, creandone un illusorio bisogno. La bassa qualità dei prodotti destinati alla massa è la causa del loro veloce deterioramento, l’oggetto, divenuto inservibile, va gettato via e ricomprato.
Nel 1955 Robert Rauschenberg realizza Bed, cuscino, lenzuola e coperta disfatti, sporcati di colore e poi appesi al muro come un quadro. Il letto, appartenente alla quotidianità ordinaria e allo spazio della vita di un essere umano (che è orizzontale), viene collocato verticalmente, entrando quindi a far parte dello spazio della visione. Il nuovo orientamento produce degli effetti sui materiali che compongono l’opera (cuscino, lenzuola, coperta e colore liquido) che dipendono dalla gravità e non dall’intenzione artistica dell’autore. L’impressione sullo spettatore è molto forte e legata alla decontestualizzazione dell’oggetto che, appeso al muro, assurge al ruolo di opera d’arte, perdendo la sua funzionalità pratica. Questa è la rielaborazione del tema dei famosi ready-made di Duchamp, che aveva aperto la strada all’analisi del rapporto tra uomo e oggetto quotidiano: alcuni esempi sono esposti alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma (si tratta di riproduzioni degli anni Sessanta, visto che gli originali di Fontana e Ruota di bicicletta sono andati perduti nella pulizia della cantina dell’artista, scambiati per materiale di scarto).
L’esperienza con l’oggetto quotidiano, iniziata da Rauschenberg, viene estesa all’oggetto di consumo prodotto industrialmente e alle icone del life-style contemporaneo. Il critico Lawrence Alloway, in un testo del 1957, è il primo ad utilizzare il termine “Pop Art”, riferendosi in generale all’arte commerciale, ma il gruppo di artisti che oggi identifichiamo sotto questa etichetta (seppure la Pop Art è un fenomeno che si estende oltre i confini statunitensi in forme molto diversificate) sono Roy Lichtenstein, Andy Warhol, Claes Oldenburg, James Rosenquist, Tom Wesselmann**. Le opere di questi cinque artisti sono accomunate dai riferimenti agli oggetti di consumo, alla comunicazione di massa della pubblicità e del fumetto, alla celebrazione dei personaggi del cinema, che diventano icone della cultura popolare. La modalità di realizzazione delle loro opere è definita fredda poiché si cerca di evitare il diretto coinvolgimento manuale dell’artista: Warhol – nel suo studio chiamato The Factory, a sottolineare il carattere meccanico e impersonale della sua produzione artistica – predilige la serigrafia; Oldenburg fa realizzare materialmente i suoi oggetti morbidi da personale specializzato; Lichtenstein ricorre alla tecnica tradizionale della pittura, ma al fine di ricreare l’effetto della stampa tipografica, privo di connotazioni espressive individuali.
La critica valuta in maniera molto diversificata il lavoro dei pop-artisti: per alcuni rivela l’esaltazione dello stile di vita della società consumistica, del benessere che deriva dall’accesso per tutti ai prodotti di massa (Warhol); per altri è una feroce invettiva contro il dominio dell’immagine, che determina il predominio della vista tra le altre strutture percettive in grado di comprendere la realtà (Oldenburg); infine per alcuni si tratta del complesso rapporto col benessere apparente, che invece nasconde la degradazione profonda dell’individuo che porta alla distruzione e alla morte.
Personaggio di spicco tra tutti è Andy Warhol: la sua fama è dovuta al carattere bizzarro e alle dichiarazioni provocatorie: “Voglio essere una macchina”, oppure “Tutti gli scandali aiutano la pubblicità, perché non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità” o la premonitrice “In futuro tutti saranno famosi per quindici minuti”. Celebri le sue opere seriali, dalla riproduzione fedele delle Brillo Boxes, confezioni di detersivo accatastate come in un supermercato, alle Marilyn o Jaquelin Kennedy (ritratti fotografici colorati con serigrafia dai suoi collaboratori).
La recente mostra alla Galleria Nazionale di Roma nel 2018-19 ha messo in luce il profondo legame dell’arte di Warhol col tema della morte, un aspetto emerso di rado, ma che fornisce un’indicazione sulla riflessione dell’artista circa il profondo disagio dell’essere umano dall’identità frammentata. Si parte da una rilettura dei ritratti seriali di Marylin, iniziati solo qualche giorno dopo il tragico suicidio dell’attrice: l’immagine del suo volto, stampata molte volte di seguito, rivela, nell’imperfezione reiterata dei dettagli più minuti, l’ossessionante tentativo di contatto con la realtà da parte dell’uomo contemporaneo, che deve accontentarsi di conoscerla solo attraverso il diaframma dei media. Un caso fortuito o intenzionale – non è stato appurato – ha voluto che un colpo di pistola, esploso da Dorothy Podber, una frequentatrice della Factory, abbia colpito quattro delle cinque tele che compongono la serie di Marylin accatastate nella Factory, provocando un foro in corrispondenza della fronte. Secondo Warhol, la donna avrebbe tentato di ucciderlo, mancando il colpo e colpendo le opere; lei invece affermò che l’evento fu causato da un fraintendimento del termine “shoot” (sparare/scattare una foto) che la donna avrebbe usato nel chiedere il permesso della sua azione a Warhol. Le tele, da quel giorno, sono conosciute col titolo The shot Marilyns.
* Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, La dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 2010
** La definizione si deve a Lucy R. Lippard et al., Pop Art, Sanesi, Milano 1967
(Manuela Marsili)