La legge Zan è il risultato di battaglie per la tutela contro le discriminazioni verso diverse categorie, inclusa quella delle persone con disabilità. La maggioranza applaude, ma c’è chi ritiene possa impedire la libertà d’espressione
La Camera approva la legge proposta dal deputato PD Alessandro Zan per il riconoscimento dell’omolesbobitransfobia e della misoginia. La legge estesa integra l’handifobia e l’abilismo.
L’importante riconoscimento legale è la conseguenza di anni di sfide legate alla nozione di “discriminazione”. Secondo l’art.43 del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n°286, costituisce una discriminazione “ogni comportamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica” .
Già prima del ddl Zan, el nostro ordinamento esistevano già delle norme sul tema delle discriminazioni. Nel 1993, la Legge Mancino propose una prima sanzione degli atti discriminatori attraverso una condanna degli atti di “discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso” e quindi stabilì tre criteri di discriminazione che sono l’appartenenza ad una razza, una religione o una nazionalità vera o supposta. Questa legge va ad aggiungersi all’articolo 3 della Costituzione Italiana, che stabilisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Altro importante punto fermo della normativa è la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, l’articolo 21 : “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale” .
Queste leggi mostrano che esistono già dei precedenti nella denominazione dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e dello stato di salute come criteri di discriminazione, ma si tratta di provvedimenti incompleti. La legge Zan era necessaria per colmare vuoti importanti perché finora non vi erano state leggi italiane (oltre alla Costituzione, che non ha un valore esecutivo) per un tale riconoscimento.
La legge Zan permette di mostrare la particolare vulnerabilità di alcune categorie della popolazione. Se altre leggi permettono una forma di “discriminazione positiva” (come, per esempio, la legge per le categorie protette nel campo del lavoro), qui si va oltre: una sanzione penale deve essere eseguita nei confronti di chiunque non rispetti il patto sociale e la vita in collettività attraverso degli atti di discriminazione. Questa legge permette finalmente di uscire da uno stato di cecità sociale e politica (anche alimentati dall’under reporting, che nasconde gli episodi di discriminazione) e permettere una società più equa riconoscendo i percorsi individuali e le difficoltà supplementari che possono incontrare le persone.
Quello che evidenzano i dibattiti su questa normativa è che non bastano dei testi giuridici per favorire l’uguaglianza: i nostri paesi devono prendere in considerazione l’equità e l’inclusione. Non siamo tutte e tutti uguali davanti ad un’offerta di lavoro, una visita in una casa, una passegiata per strada… La proposta di Alessandro Zan permette di evidenzare queste vulnerabilità particolari che vivono alcune categorie della popolazione, affinché possiamo tutelarle per permettere un’inclusione reale.
Tanto per riflettere, in Francia sono stati riconosciuti ben venticinque criteri di discriminazione riconisciti, col fine di proteggere le persone e le categorie più vulnerabili. Tra questi troviamo il cognome, l’idioma, il luogo di residenza, l’età e lo stato di salute.
C’è chi sostiene a gran voce che questa legge rappresenti una limitazione della libertà d’opinione. Forse è arrivato il tempo di chiedersi se dietro l’opinione di queste persone non si nasconda una forma di “fobia”. E che, piuttosto che parlare di libertà d’espressione, non stiano cercando di garantire la propria “libertà d’oppressione”.
(Barbara Sanieres)